Peste suina, gli allevatori mantovani preoccupati: «Costi crescenti e timori per l’export»
Preoccupati, tanto da non dormirci la notte. Per i danni che potrebbero aggredire la filiera intera, che nel Mantovano, con 1,1 milioni di suini allevati, vanta numeri da capogiro. Danni dovuti al mercato, all’export che potrebbe subire una pericolosa contrazione, al rischio abbattimenti, ai costi in crescita. Gli allevatori di suini guardano a cosa accade in queste ore tra Milano e Roma (è uscita un’ordinanza del commissario straordinario, Vincenzo Caputo, e l’assessore Alessandro Beduschi ha incontrato il ministro Lollobrigida), dove si decidono le loro sorti, con il fiato sospeso.
Chiedono, più che fondi, che si faccia il possibile per eliminare i cinghiali, anche coinvolgendo l’esercito. Intanto i numeri dei focolai crescono: in provincia di Pavia sono quattro. E diecimila i capi da abbattere.
«La preoccupazione maggiore è che la Psa possa spostarsi da Pavia in tutta la Regione – dice Thomas Ronconi, allevatore di Marmirolo e presidente di Anas, l’Associazione nazionale allevatori di suini - Siamo la prima regione d’Italia come produzione suinicola, non possiamo permetterci che l’infezione incida sul mercato, non soltanto del vivo, ma dell’intera filiera». Ronconi ha in mente quanto accaduto in Germania: «È stato tre anni fa, ma il settore non è più riuscito a sollevarsi completamente. L’Italia ha sempre dimostrato di avere un sistema veterinario in grado di tutelarci, ma questo virus è diverso: regge a qualsiasi condizione climatica».
Insieme con la preoccupazione monta la rabbia: «Siamo rammaricati perché il primo caso di cinghiale infetto nel Nord Italia è del 6 gennaio scorso in Piemonte - continua Ronconi - È da quando la Psa è entrata in Italia che chiediamo l’abbattimento mirato dei cinghiali, che avrebbero tutelato la filiera e consentito un lavoro di controllo più contenuto». Il danno? «Non è quantificabile, ma il rischio di mettere in ginocchio il settore è tangibile. E in Italia, tra filiera e indotto, lavorano nel settore 30mila persone». Ancora presto per vedere le conseguenze sulle vendite all’estero: gli episodi di infezioni negli allevamenti del Pavese sono ancora troppo recenti. Difficile anche dire quanto siano gravose, per le aziende, le misure per il contenimento della malattia.
Per Lorenzo Fontanesi, presidente di Opas (Organizzazione di prodotto allevatori suini), che in cinque regioni mette insieme 75 allevatori soci e 300 allevamenti, occorre distinguere due fasi diverse: «Un primo step è quello che precede l’evidenza dell’arrivo del virus negli allevamenti - spiega - Già quando abbiamo avuto i primi casi di cinghiali ammalati, ci siamo attivati per il rafforzamento della biosicurezza e questo ha comportato, progressivamente, un aumento dei costi, soprattutto per infrastrutture, che in parte sono stati coperti attraverso il ricorso a bandi regionali. Anche i macelli hanno subito aggravi. Ora siamo nella fase contingente, con l’attivazione delle procedure di monitoraggio, ma questa fase incide più sul pubblico. E poi ci sono le perdite legati agli abbattimenti».
Per quantificare il danno, ai costi crescenti vanno sommati i mancati ricavi, dovuti alla svalutazione della merce e al rischio che i mercati esteri non vogliano più carni e salumi Made in Italy. Nonostante non ci sia alcun pericolo di trasmissione all’uomo. Anche per questo gli allevatori chiedono rigore: «Per un Paese esportatore come il nostro, dobbiamo dimostrare che stiamo mettendo in atto tutte le procedure possibili per circoscrivere la diffusione del virus. Si è proceduto, per esempio, al ritiro e alla distruzione di tagli anatomici, ma non per sicurezza alimentare, quanto per evitare che la carne vada in giro e torni nell’ambiente perpetuando il circolo del contagio in allevamento».