Influencer dello hijab
Crescono in Francia i profili social di fede musulmana che invitano le studentesse a indossare in classe velo e abiti islamici, nonostante la legge vieti di ostentare simboli di appartenenza religiosa. Una minaccia alla laicità dello Stato che preoccupa il governo.
A lanciare l’allarme sono stati i servizi interministeriali di Parigi: troppi ormai i profili social dove si invitano studenti e studentesse di confessione musulmana ad andare in classe con il velo e altri abiti islamici. Una vera e campagna di comunicazione, lanciata su Twitter, TikTok e Instagram come un guanto di sfida alla legge del 2004 che vieta l’utilizzo di vestiti e simboli religiosi negli istituti francesi (a meno che non siano portati con discrezione). Il più delle volte si tratta di account anonimi, che sfidano i valori della République lanciando discorsi radicali condivisi da centinaia di giovani.
Un invito a trasgredire, paradossalmente, nel più conservatore dei modi. Ma anche a reagire, denunciando gli episodi considerati «islamofobi, soprattutto quando alle ragazze viene rifiutato l’ingresso nel proprio istituto scolastico a causa del velo», si legge in un rapporto del Comitato interministeriale e di prevenzione delle delinquenza e della radicalizzazione, pubblicato in esclusiva da Le Parisien. Sul web, però, c’è anche chi ci mette la faccia. Come le tante influencer musulmane che tramite i loro profili difendono la scelta di portare il velo, incoraggiando le coetanee a imitarle. Danno indicazioni con tutorial sul modo indossarlo, su quali modelli scegliere e dove comprarli a prezzi abbordabili. Una sorta di Chiara Ferragni o di Kim Kardashian in salsa islamica.
Si tratta per lo più di adolescenti, che si riprendono nelle loro camerette, tra un balletto e una storia con le amiche. I soliti post, non fosse per la tematica religiosa, onnipresente in ogni video o foto. Il tema del velo in testa vietato a scuola è tra i più ricorrenti, ma anche i rapporti con genitori e amici contrari alla loro scelta di indossare l’indumento religioso. Suggeriscono come affrontare il tema con la famiglia per far valere le proprie motivazioni. Ma soprattutto, rivendicano il diritto di potersi vestire come vogliono. Leia, per esempio, dice di essere la sola del suo istituto con le «lacrime agli occhi» quando deve scoprirsi la testa per andare a lezione, affermando che vorrebbe «vivere in un Paese musulmano solo per questo».
Moda passeggera? Difficile dirlo, almeno ora. Nei loro discorsi non c’è acredine o polemica: il più delle volte emerge la voglia capire quello che sembra essere una limitazione alla libertà personale. Il concetto di laicità è ai loro occhi l’emblema di una costrizione inutile. Un’incomprensione che nel Paese dell’égalité diventa ancora più forte quando si vedono le compagne arrivare con un «crop-top» e la pancia scoperta. Il risultato di queste denunce sui social: migliaia di like, condivisioni e commenti. Qualcuna, poi, si spinge più in là alla ricerca della provocazione. Come Yasmine, che si riprende in classe con il capo coperto, sebbene sia «vietato». «Come fai? È il mio sogno» chiede una dei suoi 35 mila follower, sebbene qualcun altro la riprenda ricordandole che «anche il collo deve essere coperto».
May, che di seguaci ne ha quasi 90 mila, danza invece al ritmo di un pezzo rap per festeggiare il fatto di «aver trovato una scuola che accetta il velo», mentre i suoi fan si lamentano di non poter fare lo stesso. Il problema, infatti, riguarda anche l’applicazione della legge, varata ormai 18 anni fa e giudicata da insegnanti e direttori troppo complicata da applicare viste le tante sfumature e zone d’ombra che presenta. A essere vietati sono tutti quegli abiti, accessori e simboli eccessivamente vistosi, come il velo, la kippa ebraica o un turbante sikh. Ma tante volte c’è un margine di interpretazione per i capi di vestiario appartenenti più alla cultura mediorientale che alla confessione musulmana, come l’abaya (un lungo camice femminile) o i qamis (tuniche maschili che arrivano fino alle caviglie). Ufficialmente vietati, spesso tollerati in tante scuole, dove si chiude un occhio per evitare lo scontro con le famiglie degli studenti.
Le segnalazioni sono comunque in aumento, come riconosciuto dal ministro dell’Istruzione Pap Ndiaye, che in un’intervista a Le Monde di metà ottobre ha parlato di una «ondata» di casi. Soltanto a settembre, quando il bilancio è diventato mensile, sono stati registrati 313 episodi di minacce alla laicità nei 59.260 istituti d’Oltralpe. Tra questi, il 54 per cento riguardava vestiti e simboli di carattere religioso (contro i 41 per cento della scorsa primavera). Dinnanzi a una simile tendenza, le autorità corrono ai ripari. Prima di tutto chiedendo maggiore collaborazione alle piattaforme social come TikTok, i cui dirigenti sono stati recentemente convocati dal ministero delle Politiche giovanili per discutere del problema. Ma lo sforzo deve partire dal sistema scolastico, ancora troppo fragile per difendere il suo principio di laicità. Lo dimostrano le recenti minacce subite da alcuni insegnanti, emerse proprio nel periodo in cui la Francia ricordava Samuel Paty, il professore di storia e geografia sgozzato due anni fa per aver mostrato delle caricature di Maometto in classe. Un docente di un liceo fuori Parigi e un collega in Alsazia sono stati minacciati di morte, il primo in forma anonima, il secondo dallo zio di un suo studente. Il pericolo resta quindi alto, mentre la Francia rivede quel concetto di liberté sulla quale si è costruita la civiltà europea.