“Perfetti sconosciuti” al Rossetti di Trieste. Il regista Genovese: «Il cellulare ha rivelato vite parallele»
foto da Quotidiani locali
«Non vorrei peccare di immodestia, ma penso che negli ultimi vent’anni nessun film italiano abbia avuto un successo simile. “Perfetti sconosciuti” è entrato nel Guinness dei primati per aver ottenuto il più alto numero di remake nella storia del cinema. Si tratta di un successo che varie testate hanno tentato di indagare». Ora, il lavoro approda in teatro. Lo si potrà applaudire da giovedì a sabato, alle 20.30, e domenica, alle 16, nella sala Assicurazioni Generali del Rossetti. Il cast è composto da Dino Abbrescia, Alice Bertini, Marco Bonini, Paolo Calabresi, Massimo De Lorenzo, Anna Ferzetti, Valeria Solarino. La regia e l’adattamento si devono a Paolo Genovese, che aveva anche firmato il lungometraggio del 2016.
Genovese, quando nasce l’idea di portare il film in teatro?
«A Buenos Aires, qualche anno fa, dopo averne comprato i diritti, mi è stata chiesta una rappresentazione teatrale del film. L’impatto della messinscena mi ha colpito profondamente: tra il pubblico e gli attori si avvertiva un’energia incredibile. Davvero, sembrava un nuovo modo per raccontare quella storia, molto diverso rispetto al cinema. Pareva che gli spettatori fossero seduti a tavola assieme ai protagonisti. Quindi, ho pensato che, prima o poi, mi sarebbe piaciuto allestire il lavoro pure in Italia. Anche perché, prima di questa avventura, non avevo mai fatto teatro, nonostante che il palcoscenico mi incuriosisse. È quindi passato un po’ di tempo e, dopo l’Argentina, “Perfetti sconosciuti” è approdato in altri Paesi fino ad arrivare al nostro: abbiamo debuttato a metà febbraio».
Dove risiedono le ragioni di un gradimento così alto?
«Nell’enorme aderenza dell’idea al periodo storico. Nel momento preciso in cui “Perfetti sconosciuti” è uscito, la tecnologia, le piattaforme e i media stavano invadendo e trasformando i nostri rapporti con il resto del mondo. Quindi, questo film è stato un detonatore, una scintilla per affrontare il tema: ha costituito una psicanalisi collettiva. Probabilmente, se fosse uscito qualche anno prima, quando eravamo appena entrati nella tecnologia mediatica di Facebook e Instagram, avrebbe avuto un impatto meno forte, perché non potevamo renderci precisamente conto di ciò che sarebbe accaduto. Alla stessa maniera, se fosse uscito adesso non avrebbe suscitato il medesimo effetto».
A lei, com’è venuto in mente di affrontare questo tema?
«Probabilmente, dalla consapevolezza di come la nostra vita, dai quattordicenni agli ottantenni, stava cambiando grazie al cellulare che, penso, costituisca uno dei grandi stravolgimenti nella storia dell’umanità. Ha cambiato il nostro modo di vivere. Poi, però, l’idea deve molto a un fatto personale: il cellulare di un mio amico è capitato nella mani di sua moglie e lei ha scoperto un mondo parallelo, che nessuno avrebbe potuto immaginare. Ciò mi ha fatto venir voglia di raccontare quanto poco sappiamo di parenti e conoscenti. E poi ho pensato a come il cellulare potesse descrivere la duplicità, la triplicità dell’essere umano».
Il telefonino, i rapporti tra amici e parenti, li ha cambiati in meglio o in peggio?
«Penso che la possibilità di avere una rete di condivisione di esperienze, di legami e pensieri abbia lati senza dubbio positivi. Poi, però, c’è una parte patologica: le dipendenze, il ritirarsi dalla vita reale per appoggiarsi appunto a una vita mediatica, tecnologica, dietro a un filtro. Non dimentichiamoci che è nata una nuova categoria, quella degli haters, che prima odiavano comunque, ma non avevano modo di manifestare il proprio odio così. Ora, siamo diventati tutti giudicanti, pronti a puntare il dito, a esprimere opinioni. Non è un caso che la categoria dei lovers non esista».
La pandemia ha favorito la fuga nel virtuale.
«Se, prima della pandemia, c’era una convivenza tra la vita vera e quella virtuale secondo una libera scelta di ognuno di noi, con il Covid l’unico contatto con l’esterno era rappresentato dal telefonino. In quel periodo, poteva andar bene, ma certe abitudini si sono cristallizzate e rischiano un punto di non ritorno. Ciò vale anche per altri settori. Basti pensare al cinema. Per due anni, chiunque si è abbonato a qualsiasi tipo di piattaforma e ha cominciato a vedere i film sul divano. Ora, però, le piattaforme non sono state disdette e in sala si va di meno rispetto a un tempo».
Ma lei, il cellulare di sua moglie, lo guarda?
«No, per rispetto, per fiducia. E poi penso che ognuno di noi abbia una parte privata che prima stava nel nostro cervello, mentre ora la tecnologia ha fatto sì che venisse messa in un oggetto. In fondo, durante la scrittura del lavoro mi aveva colpito una frase di García Márquez: “Ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata, una segreta”. È qualcosa, appunto, che riguarda tutti».
Ciò anche prima dell’avvento dei cellulari?
«Sì, assolutamente».