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Март
2023

La plastica inonda i fiumi del Veneto ma nessuno fa niente: ecco perché

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La plastica inonda i fiumi del Veneto ma nessuno fa niente: ecco perché

foto da Quotidiani locali

Guardate bene la bottiglia di plastica che avete in mano: morirete prima di lei. Il tempo di degradazione di una bottiglia di plastica è cento anni, ma si può arrivare anche a mille. Noi ce ne sbarazziamo con disinvoltura, oplà, un gesto e problema finito. Invece la plastica abbandonata ci sopravvive. L’ottanta per cento dei rifiuti che galleggiano in mare sono quelli che noi abbandoniamo per terra. Li trasportano i fiumi, il vento, le acque di dilavamento, gli scarichi. Il mare ne ributta un po’ a riva, il resto finisce al largo. Scompare alla nostra vista ma non cessa di esistere. Ecco le nuove forme d’inquinamento.

 A nessuno compete smaltire la plastica in acqua

Sono nate così le mostruose isole di plastica che galleggiano negli oceani. La più grande è estesa come la penisola iberica e profonda decine di metri. L’hanno battezzata Pacific Trash Vortex, si incontra sulla rotta tra la California e le Hawaii. Altre ce ne sono nel Pacifico del Sud, nell’oceano Indiano, nell’Atlantico. Una anche nel mare di Barents, a ridosso del Circolo polare artico, alimentata da rifiuti partiti dalle sponde dell’Europa e dell’America del Nord.

Qualcuno si è divertito a immaginare per queste isole di plastica una bandiera, un passaporto e una valuta, come uno stato indipendente. Perché, assurdo, hanno anche degli abitanti: meduse, lumache di mare, avannotti, organismi senza movimento autonomo, concentrati dalle grandi correnti nelle stesse aree della plastica, che loro colonizzano.

In acqua di mare la plastica si decompone, le particelle entrano nella catena alimentare, passano perfino nell’aria. Tra il 2015 e il 2017 scienziati tedeschi di un istituto di Brema hanno scoperto microplastiche nei ghiacci della Groenlandia, in zone remote e a livelli tali che potevano essere arrivate solo dal cielo trasportate dai venti.

In Antartide nevica plastica, particelle grandi come chicchi di riso mescolati a neve fresca: fatto documentato nel 2019 da ricercatori neozelandesi dell’università di Canterbury. Nel 2020 medici dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma e del Politecnico delle Marche hanno trovato nella placenta di 6 donne residui di polipropilene, materiale di cui sono composte le bottiglie di plastica.

Il Wwf sostiene che siamo il terzo paese del Mediterraneo, dopo Turchia e Spagna, a disperdere plastica in mare: 90 tonnellate al giorno è la quantità stimata. Quanto contribuisce il Veneto?

La fotografia di quello che accade da noi è la chiusa Torretta sul Canal Bianco, nel comune di Legnago, uno dei corsi d’acqua più intasati di immondizia della regione. Non perché la gente del posto sia più incivile della media veneta, solo perché le chiuse vengono pulite due volte l’anno e trattengono tutto. 

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Si forma un tappeto di rifiuti, oggetti di plastica, sfalci d’erba, indumenti dismessi, carogne di animali, ramaglie, così spesso ed esteso da lastricare il canale. Quando la spazzatura arriva a bloccare il manufatto, bisogna intervenire. Ci deve pensare l’ingegner Giuseppe Fasiol, direttore generale di Infrastrutture Venete, ente nato dalla scissione di Sistemi Territoriali, la società che a suo tempo Giancarlo Galan e Renato Chisso avevano affidato a Gian Michele Gambato per gestire le ferrovie venete e non è mai andata oltre la linea Mestre-Adria (peraltro restituita adesso da Luca Zaia a Trenitalia, singolare inversione dell’autonomia regionale).

Ma Infrastrutture Venete si occupa della navigabilità interna, non dei rifiuti: quando vengono portati a riva di chi sono? Chi paga lo smaltimento? Già tre anni fa Fasiol segnalava il problema al suo capo, l’assessore all’ambiente Giampaolo Bottacin. Risposta: se siamo a Legnago la competenza è ovviamente di Legnago. Ovvietà respinta dal comune. Fasiol è stato costretto a intervenire perché la situazione era di pericolo. Alla fine il palleggio ha prodotto una convenzione tra Legnago e altri 50 comuni che si ripartiscono i costi dello smaltimento per la pulizia della chiusa, che viene fatta due volte l’anno. E nel resto del tempo? I rifiuti si accumulano e quando la barriera viene aperta se ne vanno al mare. Nessuno li intercetta perché non è compito di nessuno.

Sul Canal Bianco come in tutti gli altri fiumi e canali navigabili del Veneto, dal Po al Tagliamento, vigilano un sacco di enti, con fior di professionisti ma tutti si occupano d’altro. A cominciare dal Genio Civile, competente sugli argini, la difesa idraulica, concessioni e permessi vari, perfino attività di polizia, ma non parlategli di rifiuti.

C’è l’Arpav, ha una direzione generale a Padova e dipartimenti per ogni provincia, ma il suo compito è monitorare la qualità delle acque: sui rifiuti urbani e speciali ha competenza solo ispettiva (controlla quelli che se ne occupano). Ci sono le ex municipalizzate della nettezza urbana, le varie Hera, Etra, Veritas, oggi società quotate in Borsa capaci di fare utili senza che ne beneficino le bollette degli utenti. Sono nate per raccogliere rifiuti, chi più di loro? Raccolgono rifiuti, è vero, ma solo confezionati in contenitori con tutti i crismi, altrimenti te li lasciano davanti alla porta di casa. Figurarsi smaltire avanzi di fiume senza che nessuno paghi.

Per trovare qualcuno che intercetta e recupera i rifiuti galleggianti bisogna arrivare all’Unione Bonifiche e ai 10 consorzi più uno (sul canale Leb) che gestiscono i 25.000 chilometri di acque interne del Veneto. Sono costretti a farlo – spiega il direttore generale Andrea Crestani – perché tutti i canali della bonifica finiscono in chiuse, che i 1400 dipendenti più 300 stagionali devono controllare e pulire sistematicamente, pena l’intasamento.

I consorzi hanno firmato convenzioni con i Comuni e pagano per lo smaltimento. Sono la frontiera più avanzata in questa terra di nessuno, gli unici che hanno un’idea della quantità e qualità dei rifiuti recuperati, oltre che dei costi. Il resto degli enti non sa nulla, siano regionali che statali. L’Autorità di bacino del Po ha lanciato solo nel 2021 un monitoraggio per capire quanta plastica il fiume più grande d’Italia porta al mare (progetto Mapp ancora in corso). Figurarsi gli altri fiumi.

Non siamo all’anno zero, siamo prima ancora.

 Una diga mobile dal Vicentino ai fiumi del mondo

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Questa storia veneta comincia con un milanese che legge per caso, su una rivista trovata in aereo, di un sistema per bloccare i rifiuti galleggianti sui fiumi brevettato da un’azienda vicentina. Il milanese si chiama Luca Basellini, è socio di una birreria in riva al Naviglio della Martesana che collega la città di Milano al fiume Adda. Davanti alla birreria passano oggetti galleggianti di ogni genere: bottiglie di plastica, taniche, sacchetti di immondizie, scarpe, stracci, carogne di animali. Senza sosta. Una rovina per la birreria. Perché non contattare i veneti?

Basellini rintraccia l’azienda, la Mold srl di Cassola, e parla con il titolare Vanni Covolo. Si rende conto che l’intervento ha bisogno di un sostegno più ampio e lo trova nel comune di Milano: l’assessore all’ambiente Elena Grandi gli dà il patrocinio per organizzare un test e lo scorso settembre una piccola folla assiste alla posa delle boe galleggianti davanti alla birreria.

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Il sistema si chiama River Cleaning. Le boe sono ancorate sul fondo, accostate una all’altra e posizionate diagonalmente rispetto al corso d’acqua. Ognuna ruota sul proprio asse grazie a palette immerse, spinte dalla corrente. L’oggetto intercettato passa da una boa all’altra e viene trasferito a riva, dentro una rete. Fa tutto la corrente.

I gestori della birreria hanno solo il problema di svuotare il contenitore che si riempie di rifiuti. La dimostrazione milanese finisce sui giornali nazionali e le grandi reti tv, dove gira per qualche mese. Ossigeno per Vanni Covolo, fino a quel momento confinato sui social e le testate minori.

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Il primo brevetto River Cleaning è stato depositato nel 2018, non da Covolo ma da due fratelli vicentini, Andrea e Alex Citton, che hanno avuto l’idea di questa barriera modulare galleggiante che intercetta i rifiuti ma permette la navigabilità e non impatta sull’ecosistema. Al passaggio di imbarcazioni le boe si aprono sulla spinta dello scafo, ma tornano in posizione quando cessa la spinta.

Nel 2019 Andrea Citton, che ha lo studio di designer vicino alla Mold srl di Vanni Covolo, trova in quest’ultimo un sostenitore del progetto che decide di investire nell’idea. Il prototipo s’impone fin dalle prime dimostrazioni pubbliche, tanto che lo stesso anno riceve il Leone di San Marco, riconoscimento speciale per l’innovazione in campo ambientale.

Il successo induce Covolo nel 2020 ad acquisire in toto il brevetto per provare a lanciarlo sul mercato. Da allora River Cleaning è stato perfezionato con altre tre versioni, sempre coperte da brevetto: la prima per blindarlo dalle imitazioni; poi per rendere più pratica l’installazione nei canali non navigabili dove non serve la permeabilità della barriera perché non passano natanti; successivamente per sfruttare il movimento rotatorio delle boe e recuperare energia collegandole a una dinamo e a trasformatori; infine per consentire al sistema di recuperare gli oli sversati e le alghe che viaggiano sotto il pelo dell’acqua.

La singolarità di questo brevetto veneto è che cammina meglio fuori dal Veneto. Se n’è interessata la Regione Campania, che sta risanando il bacino del fiume Sarno. Covolo riesce a parlare con il presidente del Campania De Luca ma non con quello del Veneto Zaia. Ha contatti con i tecnici della Regione Lazio, dove è molto avanti la sperimentazione dei “contratti di fiume”, una forma di intervento che mobilita soggetti privati e pubblici del territorio. L’hanno chiamato dalla Toscana per i problemi dell’Arno.

All’estero leggono in internet il suo profilo, lo chiamano dal Canada, dall’Indonesia, da paesi dell’Africa e del Golfo Persico. Gli scrivono dal Brasile. Ultimamente è stato selezionato per entrare in Horizon Europe, progetto finanziato dall’Unione europea. Ma già nel 2019 gli avevano offerto dall’India di partecipare ad un appalto per la pulizia del Gange, valore 343 milioni di euro. Lui aveva già acquistato il biglietto aereo, poi si è fermato: chi sono io, si è chiesto, piccola srl con modesto capitale sociale, per sperare di competere con colossi internazionali?

Covolo ha il know how ma non la dimensione aziendale necessaria. Per dimostrare la validità dell’idea ha installato a sue spese le boe del River Cleaning sul canale scolmatore del Brenta, a Rosà, d’accordo con il comune e il consorzio di bonifica. Ma ci vuol altro per uscire dalla sperimentazione.

L’assessore regionale Elena Donazzan, bassanese come lui, l’ha messo in contatto con Veneto Sviluppo, la finanziaria regionale che un tempo poteva affiancare le aziende entrando come socio minoritario. Ma la normativa è cambiata, gli hanno risposto, oggi possono aiutarlo solo abbattendo i tassi d’interesse sui prestiti.

Qualcosa di più ha fatto l’assessore Giampaolo Bottacin, aprendogli le porte del Genio Civile e dei servizi forestali. I contatti sono in corso, ma lo scoglio resta normativo. Il problema dei rifiuti galleggianti è che il recupero e lo smaltimento sono previsti come fatto occasionale, non come comportamento sistematico, chiunque se ne occupi e qualunque sistema addotti, River Cleaning o altro.

La normativa in vigore (delibera 33 del 21 aprile 2009) mette l’incombenza in capo ai Comuni, che possono chiedere il rimborso per le spese sostenute presentando documentazione caso per caso alla Direzione Ambiente. Un meccanismo imperniato sulla volontarietà degli enti, senza nessun coordinamento dall’alto. C’è un motivo se non avviene: non si sa neanche a chi toccherebbe farlo.

 Cosa fa l’Autorià di bacino? Studia, non raccoglie

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Ricordate l’atrazina? Era un diserbante adoperato in agricoltura a livelli tali che inquinò la falda freatica per anni. La parte che non penetrava in profondità andava al mare trasportata dalla rete di fiumi e canali, al punto che l’intera laguna veneta si trovò avvelenata. Chi doveva intervenire? Si scoprì che la competenza non era di nessuno. Per colmare il vuoto legislativo, il Consiglio regionale del Veneto approvò nel 1991 il “piano direttore” della laguna che uniformava gli interventi nei 108 Comuni del bacino scolante.

Qualcosa di simile si sta verificando a livello nazionale con i rifiuti galleggianti trasportati dai fiumi. Anche qui la competenza è di nessuno. O meglio era, perché dal 17 maggio 2022 la “Legge Salvamare” ha messo in capo alle Autorità di bacino il compito di attivare «misure sperimentali nei corsi d'acqua dirette alla cattura dei rifiuti galleggianti» (art. 6). Peccato che non siano ancora stati emanati i decreti attuativi di questa legge. Dovrebbero essere 6, a cura di 4 ministeri: Ambiente, Politiche agricole, Transizione ecologica e Salute. In Parlamento giacciono senza risposta sollecitazioni e interrogazioni. L’ultima di fine novembre, prima firmataria Ilaria Fontana, una biologa romana del M5S.

Nell’attesa che il legislatore si riscuota dalla pennichella, sappiamo almeno a chi toccherà coordinare gli interventi. Che per il momento sono finanziati su scala nazionale con 2 milioni di euro l’anno, dal 2022 al 2024. Cifra da salutare come anticipo, se vogliamo davvero invertire la rotta.

Le Autorità di bacino in Italia sono 7, il Veneto rientra nel distretto Alpi orientali assieme a Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. La competenza di questa Autorità va dai confini con Croazia, Slovenia e Austria, alle rive del Garda e del Po.

Quali misure sperimentali sta attivando per catturare i rifiuti galleggianti nei corsi d’acqua di sua competenza?

«Abbiamo inviato al ministero dell’Ambiente lo scorso dicembre la proposta di un progetto pilota», risponde Marina Colaizzi, segretario generale dell’Autorità, «per valutare lo stato delle microplastiche nella laguna veneta. I partner ipotizzati sono Regione Veneto, Arpav, Ispra, Cnr, diverse Università. Abbiamo scelto la laguna con il bacino scolante perché è un ambito molto studiato, che consente di non partire da zero. Cercheremo di ricostruire la filiera della microplastica, come si produce, come si sposta, dove va a finire. Con un monitoraggio delle fonti che sono molteplici: residui di farmaci, del lavaggio di fibre tessili, dell’urbanizzazione, per citarne alcune. E una modellistica che permetta di costruire previsioni sul futuro. Siamo in attesa che il ministero ci risponda».

E per i rifiuti di plastica non ancora ridotti a microparticelle che intanto viaggiano dai fiumi al mare? Marina Colaizzi si stringe nelle spalle: «Se io come Autorità di bacino mi devo impegnare a raccogliere i rifiuti dell’Adige ma non so dove portarli, non lo faccio. La legge Salvamare prevedeva che dovessimo avere risorse già nel 2022, invece non ci è arrivato un centesimo. Vedremo quanto ci daranno per il progetto laguna, solo dopo potremo dimensionare l’intervento».

«L’ambito acque interne è il più sguarnito», ammette Sara Pasini, dirigente preposta al progetto laguna. «Sul mare si è fatto moltissimo, almeno a livello sperimentale e adesso con la legge Salvamare. La Regione si sta muovendo per cambiare la normativa, ma le acque interne restano scoperte».

Ricapitoliamo: c’è un vuoto legislativo conosciuto da tutti, tamponato dal governo con “misure sperimentali” previste da una legge ferma da nove mesi perché mancano i decreti attuativi, mentre in periferia gli enti si guardano ognuno convinto che tocchi a qualcun altro.

Da suicidio. A meno che qualche novità non arrivi con un’indagine di cui è capofila l’Arpav nel Veneto e i cui risultati verranno resi noti a giugno. E’ la coda di un progetto triennale molto più vasto, in sigla Marpless, finanziato dall’Unione europea con alcuni milioni di euro, partito nel 2020, che vede cooperare Italia e Croazia sul fronte dei rifiuti abbandonati in mare (marine litter la definizione tecnica).

L’obiettivo di Marpless è monitorare il fenomeno lungo le coste dell’Adriatico, verificare i percorsi e i punti di accumulo dei rifiuti attraverso immagini satellitari, standardizzare le tecniche d’intervento e, non ultimo, individuare gli ostacoli posti da leggi e normative differenti.

L’Italia partecipa con le Regioni Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Puglia, l’Università di Bologna e la Fondazione Cetacea di Riccione. Il progetto include la sperimentazione di nuove tecnologie con lo scopo di «prevenire, rimuovere e trattare il marine litter». Sono stati coinvolti i concessionari delle spiagge di Caorle, Bibione, Jesolo e Cavallino Tre Porti.

In questo quadro, uno dei fenomeni indagati è anche la plastica portata al mare dai fiumi. Sul punto l’Arpav ha spedito un questionario a Geni civili, Consorzi di bonifica, Consigli di bacino per i rifiuti, associazioni ambientaliste e altri ancora. Ne parliamo con Stefania Tesser responsabile del progetto e con il tecnico Andrea Torresan, che ci illustrano le finalità dell’iniziativa: identificare le competenze precise di ogni ente, avere indicazioni sulle tecnologie usate per lo smaltimento, valutare l’impatto del fenomeno da punti di vista diversi e, udite udite, conoscere «la disponibilità degli enti a sedere attorno ad un tavolo per discutere forme di collaborazione».

Magari succederà davvero. Vedremo a giugno.

***

Il giro delle coste italiane con un motore “lavalacqua”

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L’idea è elementare e per questo geniale: filtrare l’acqua che i motori marini normalmente aspirano per il raffreddamento, trattenendo le microplastiche e rimettendo in mare acqua pulita. O almeno senza la plastica. Intercettare uno dei più insidiosi inquinanti semplicemente navigando. Si capisce perché questo sistema brevettato da Suzuki e presentato la prima volta al salone nautico di Genova nel 2021 è stato ribattezzato “lavalacqua”. La casa motoristica giapponese ha fatto i test nel nostro paese, ricorrendo anche ad un concessionario veneto, la Nautica Polesana di Rosolina. Per il lancio del sistema, l’Italia è stata scelta assieme a Francia, Olanda, Gran Bretagna, Stati Uniti, Australia, Filippine, Cina, Indonesia e naturalmente Giappone.

Il “micro-plastic collector” è un dispositivo di filtraggio collocato all’interno del circuito di raffreddamento nei motori sopra i 100 cavalli. Un motore di questa cilindrata, spinto al massimo dei giri, utilizza per il raffreddamento 40 litri d’acqua al minuto. Non è poco, al termine di una giornata di navigazione.

Il Club del gommone di Milano sfrutterà questa innovazione per raccogliere dati sullo stato di inquinamento dei mari italiani, bordeggiando sotto costa ma anche navigando in mare aperto. Lo farà con il raid “Mediterraneo pulito” che partirà sabato 22 aprile da Genova, diretto a Venezia dove giungerà il 1° giugno, giorno di inaugurazione del salone nautico.

«Nove equipaggi si avvicenderanno alla guida di un gommone attrezzato con un motore Df 140», spiega Virginio Gandini, presidente del Club milanese.

«Il percorso complessivo sarà di circa 2.800 miglia. Circumnavigheremo la Corsica, la Sardegna, la Sicilia per poi risalire l’Adriatico anche dalla parte della costa croata e slovena. Ad ogni cambio di equipaggio il filtro del microplastic collector verrà sostituito e sigillato, in modo da consentire terminato il viaggio una conoscenza precisa dello stato di inquinamento dei tratti di mare che abbiamo attraversato». 





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