Il datore di lavoro lo adotta e il giudice lo assolve anche se non ha il permesso di soggiorno
Di lui si conoscevano il nome, l’età e la provenienza. Ma in assenza di documenti in grado di attestarlo e con un ordine del questore di Udine ad abbandonare il territorio nazionale pendente dal 2010, per le autorità italiane si trattava di un signor “nessuno”. Per di più, sprovvisto di regolare permesso di soggiorno.
A restituire un’identità, oltre che un contesto familiare e una prospettiva lavorativa a Joseph Kingsley Nkumba, oggi 38enne, originario del Malawi e con casa a Premariacco, è stato l’atto di adozione che l’uomo che cinque anni prima lo aveva assunto nella propria azienda agricola come bracciante ha ottenuto dal tribunale di Udine nel 2021.
Oggi, di fronte al muro della burocrazia che continua a negargli l’iscrizione all’anagrafe, è quell’unico documento a valere come salvacondotto. Il solo ad avergli evitato una condanna e l’espulsione.
«La sua presenza in Italia trova una sorta di giustificazione nel percorso di integrazione sociale che aveva all’epoca intrapreso e che ha avuto il suo epilogo con l’effettiva adozione a cura di un cittadino italiano», scrive il giudice di pace di Udine, Carla Milocco, nella sentenza con cui lo ha assolto dall’accusa di avere violato la prescrizione questorile «perché – recita la formula – il fatto non costituisce reato».
Non, quindi, un soggetto irregolare “itinerante” sul territorio nazionale «per sfuggire ai controlli o ai divieti già emessi», precisa il giudice, bensì una persona «che ha stabilmente vissuto, avendo come unico riferimento il rapporto, prima lavorativo e poi familiare, instaurato a Premariacco con la persona che lo ha adottato». E cioè con Federico Pravisani, il datore di lavoro diventato il suo nuovo “papà”.
Eppure, scampato il pericolo di una sanzione penale - il pm onorario aveva concluso per la condanna a 10 mila euro di multa -, resta il paradosso di un’esistenza ufficialmente vissuta alla stregua di un fantasma. Era stato il suo difensore, avvocato Carlo Monai, a ricostruirne le spirali.
«Ottenuta l’adozione, per regolarizzarsi chiese al Comune di Premariacco l’iscrizione come residente. La risposta? Avrebbe dovuto ottenere prima il permesso di soggiorno per motivi familiari – ricorda il legale –. La verità è che l’adozione stessa gli dà diritto alla carta di soggiorno.
Comunque, neppure il Commissariato di polizia di Cividale gli diede nulla, mancandogli un documento d’identità, che lo stesso Comune non può rilasciargli non risultando iscritto all’Anagrafe.
Quanto al passaporto malawese, di cui nel 2011 denunciò lo smarrimento – continua –, non gli è stato rinnovato neppure dopo l’adozione né dal Consolato di Milano, dichiaratosi incompetente, né dall’ambasciata a Bruxelles, disponibile a rilasciargli solo un permesso di viaggio di emergenza per il rientro in Malawi.
Va da sè come, ottenuto finalmente un nuovo passaporto, gli sarebbe poi stato precluso sine die il reingresso in Italia».
Nel limbo di un’attesa che lo vede privato dei diritti minimi, compresa la disponibilità di una tessera sanitaria, è stato il giudice di pace a suggerire una soluzione di buon senso.
«Difficoltà burocratiche a oggi non gli hanno consentito di ottenere un permesso di soggiorno, ma tale circostanza – scrive – non ha maggior valore della sentenza di adozione del tribunale di Udine, in cui Nkumba è stato perfettamente identificato e riconosciuto dallo Stato italiano, superando la sua condizione di clandestinità».