Covacevich, il regista cileno con radici dalmate: «Filmai l’incontro tra il mio amico Allende e Fidel»
Ospite a Trieste del Festival del Cinema Ibero Latino Americano che gli dedica una retrospettiva. Il nonno era di Lesina
TRIESTE. Nato il 3 novembre 1933 a Santiago del Cile il regista, sceneggiatore e compositore Alvaro Covacevich, il cui cognome rivela origini dalmate, ha compiuto novant’anni (di cui sessanta dietro la macchina da presa) durante la trasvolata che dal Messico lo ha portato a Trieste. Il Festival del Cinema Ibero-Latino Americano, nella sua 38esima edizione, gli dedica in questi giorni una retrospettiva all’interno della sezione “Allende: 50 anni dopo”, ovvero mezzo secolo dopo il colpo di stato militare e la morte del presidente cileno.
Di Salvador Allende Covacevich è stato amico personale, oltre ad aver fissato per sempre su pellicola momenti storici come, nel suo documentario “El diálogo de América” del ‘72, l’incontro del presidente con Fidel Castro nella casa presidenziale di Tomas Moro. In America Latina Alvaro Covacevich è una vera e propria icona. Il suo primo lungometraggio, “Morir un poco”, del 1966, il cui protagonista era un uomo comune, è uno dei film più interessanti che hanno preceduto l’esplosione del cosiddetto Nuovo Cinema Cileno, di cui anche altri suoi film in programma a Trieste sono stati il seme.
Il Messico è il paese in cui Alvaro Covacevich vive tuttora e dove si è stabilito dopo il golpe del 1973, mentre la sua casa veniva rovistata per trafugare e distruggere le sue pellicole, fortunatamente messe in salvo e recuperate. Alla vita cilena Covacevich è comunque sempre rimasto legato, ed è infatti anche uno degli ispiratori del progetto di creazione del Centro Culturale Palacio La Moneda.
Andando alle origini, a creare quel legame con il Cile, a metà Ottocento, fu il nonno Antonio, che emigrò dalle campagne di Hvar (Lesina) verso il sogno americano. E che in Cile si stabilì innanzitutto per amore. «Flor, mia nonna – racconta il regista – aveva 15 anni, quando la incontrò, i capelli lunghissimi legati in una treccia e teneva stretta una bambola. Lui, con la barba, sembrava più anziano di quello che era. Si sposarono, e mio nonno non solo le lasciò “i suoi tempi”, in due stanze da letto separate, ma le regalò una bambola ogni giorno, per un anno intero. Poi una notte scoppiò un fortissimo temporale e Flor bussò alla porta della camera di Antonio, dicendo che aveva paura dei tuoni e chiedendo se potevano dormire insieme. E da lì è nata la mia famiglia».
In Dalmazia ci sono ancora le campagne del suo bisnonno e con la natura anche lei ha un forte legame. E’ architetto paesaggista, e all’Università del Cile ha fondato la sezione di Paesaggistica Applicata e Decorazioni Esterne allla Scuola di Arti Applicate della Facoltà di Belle Arti. Oltre a realizzare parchi e giardini in sedi prestigiose ha però intrapreso presto la strada del cinema.
«Nel ‘63 ho partecipato a una spedizione scientifica nella foresta amazzonica e ho girato un documentario sulla vita degli indigeni della regione. Il mio legame con la natura si vede comunque nei miei film e il parco in “Morir un poco” è opera mia».
“Morir un poco” è nato in un momento decisivo, della nascita di un nuovo pubblico in Cile, assieme a un nuovo cinema mentre gli elementi materiali per voi, produttori-cineasti, erano molto modesti.
«Volevo raccontare la vita di un uomo comune, le persone che vedevo per strada. E così scelsi anche il mio protagonista, un uomo che viveva davvero in una costruzione modestissima, accanto alle tombe dei suoi genitori, con l’acqua che cadeva dal tetto se pioveva, in casa e sulle lapidi. Quando il film fu pronto ebbi difficoltà a convincere una sala con 2500 posti ad accettare un film che era tutto opera mia, anche nelle musiche. Alla “prima” gli spettatori furono sedici, nella seconda proiezione a vederlo furono poco più di trenta. Poi saltò la proiezione di “Zorba il Greco”, con Anthony Queen, nel fine settimana. E quando arrivai davanti al cinema vidi talmente tanta gente e i cordoni della polizia che pensai ci fosse un incendio, e invece erano i miei spettatori, un numero tale che era “saltata” la capienza della sala. E il film rimase in sala per sette mesi».
E fu dopo quel film che conobbe Salvador Allende.
«Di vista ci conoscevamo già, ma dopo aver visto “Morir un poco” si complimentò con me e disse “Un giorno faremo qualcosa insieme”. Fu di parola. Mi chiamò a meno di una settimana dal suo storico incontro con Fidel Castro e disse voglio che a documentarlo sia tu. Un’enorme responsabilità e pochissimi giorni per reperire le attrezzature necessarie. Ma uno degli ultimi ricordi che ho di Allende è quanto fosse felice per “El diálogo de América”».
Il vostro è stato anche un rapporto di amicizia.
«Gli altri, naturalmente, lo chiamavano presidente, o all’epoca tutti si chiamavano tra loro compañeros, compagni. Io lo chiamavo dottore. Gli piaceva. Era laureato in medicina e chirurgia. E, come ministro della Sanità e delle Politiche Sociali, si era adoperato nell'estensione del sistema sanitario pubblico anche alle frange più deboli della popolazione. E fu autore di una vasta gamma di riforme sociali progressiste, comprese le leggi sulla sicurezza e protezione dei lavoratori nelle fabbriche, l'aumento delle pensioni per le vedove, leggi a tutela della maternità e distribuzione di cibo e programmi educativi gratuiti per bambini in età scolare».