Calcio, Possanzini si racconta agli studenti: «Io, il Mantova, il lavoro: ecco chi sono»
Il mister incontra i ragazzi del liceo scientifico sportivo Belfiore: «Non volevo fare l’allenatore poi la curiosità e la passione hanno avuto la meglio».
Davide Possanzini dentro e fuori dal campo. Opinioni e testimonianze in ordine sparso fuoriuscite dalla bocca del mister durante l'incontro di mercoledì mattina al Dlf di Mantova con i ragazzi del Liceo scientifico Belfiore ad indirizzo sportivo. Lui, il mister, a cuore aperto nel dialogo con gli studenti. Ecco in pillole alcuni dei pensieri espressi dal condottiero dell'Acm nell’ambito del faccia a faccia organizzato con la scuola.
Equilibrio fra persona e atleta
«Dopo aver allenato in passato nel calcio giovanile, mi ero reso conto dell'importanza di un approccio sistemico anche con la prima squadra - confessa -. Quando ho iniziato ad allenare facevo una scaletta, programmavo i concetti da assimilare. Ma ho cambiato idea».
Non avrei mai voluto fare l'allenatore, da calciatore certe cose non puoi comprenderle. Ma mi sono trovato a farlo
«Quest'anno mi sono concentrato sul risultato globale, iniziando con un lavoro difficile per poi magari scomporlo in modo analitico. E non parlo del gesto tecnico, dobbiamo guardare oltre. Un calciatore è molto di più. Con gli interventi giusti, fatica e pazienza, il buon lavoro emerge. Poi chiaro, conta il materiale umano».
Mister in campo, o forse no
«Non avrei mai voluto fare l'allenatore, da calciatore certe cose non puoi comprenderle. Ma mi sono trovato a farlo, il tecnico. Ad un certo punto la curiosità ha preso il sopravvento. Quando giocavo io il modo di allenare era quasi imposto, mi chiedevano cose che poi nella realtà erano difficili da mettere in pratica sul campo. E mi facevo delle domande».
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«Le risposte ho cominciato a darmele quando ho smesso di giocare. Ho studiato, ho osservato da vicino, ho riflettuto su come rendere più agevoli certi concetti, mi sono aggiornato. Da lì ho trasformato la smisurata passione che ho per il calcio in qualcosa di ancor più totalizzante».
Scommesse e la ludopatia
«Non posso nascondere l'esistenza del problema, non condanno e non giustifico chi è caduto in questa rete avendo l'illusione del guadagno facile. Talvolta il problema nasce dalle società, che non riescono a tutelare i propri tesserati. Ma soprattutto i ragazzi devono fare attenzione alle persone da cui vengono avvicinati, attratti dalla fama per interesse».
Con gli interventi giusti, fatica e pazienza, il buon lavoro emerge. Poi chiaro, conta il materiale umano
«Che approfittano della debolezza di chi è in difficoltà economica, o inesperto o psicologicamente debole. Per scegliere bene le persone occorre fare un percorso di responsabilità. E sapere che non si può avere tutto e subito».
Il rapporto con gli arbitri
«Dovrei essere l'ultimo a parlarne, visto che vengo da una squalifica di tre giornate, Ma io l'arbitro non l'ho insultato, lo ribadisco. Prima c'era più rispetto reciproco con i fischetti, ai giocatori veniva perlopiù chiesto di non essere plateali. Un rapporto diverso, più complicità tra noi. Alla fine anche l'arbitro è un uomo, non una macchina e può sbagliare come lo fanno i calciatori e i tecnici. A volte ancora perdo la lucidità necessaria nei loro confronti ma sto lavorando per completare il percorso di autocontrollo».
Sacrifici e rinunce
«Se vuoi fare il calciatore la passione ti spinge. L'unica cosa che mi è pesata è stata la rinuncia alla famiglia, perché a 12 anni ho lasciato Loreto per entrare nel settore giovanile del Torino».
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« E allora il mondo era più grande di oggi, dove si è sempre connessi e 600 chilometri di distanza ormai sono nulla. Allora si poteva chiamare casa solo dopo cena con un telefono a gettoni. E costava...».
La guerra in Ucraina
«Nel febbraio di due anni fa ero vice di De Zerbi sulla panchina dello Shaktar Dontetsk ma da tempo eravamo a Kiev, perché la guerra nel Donbass c'era già dal 2014. Alle avvisaglie di guerra è seguita l'escalation. Appena rientrati dalla preparazione svolta in Turchia ci siamo svegliati sotto le bombe, finendo subito per rifugiarci nel bunker antiattacco dell'hotel che ci ospitava».
Se vuoi fare il calciatore la passione ti spinge
«Siamo stati bloccati lì per 5 giorni, solo con un piccolo zainetto, vivendo nell'attesa, senza contatti con i familiari. La guerra non era più solo nei libri di storia, ce l'avevamo in casa. Ti passa davanti tutta la vita e capisci che non c'è niente di più bello di godere ogni giorno di ciò che fai. Resta solo un grande senso d'impotenza di fronte al conflitto. Cinque giorni che mi sono sembrati cinque anni. Qualcosa da cui esci consapevole della fortuna che abbiamo ad essere liberi».