Il fisco coglie solo la prima «mela» dall'albero delle tasse non pagate in Italia dai colossi di Internet. E neppure intera. Apple dovrà versare 318 milioni di euro all'Agenzia delle Entrate, nell'ambito del procedimento con al centro una presunta evasione fiscale con un mancato versamento dell'Ires per un totale di circa 879 milioni di euro in cinque anni, dal 2008 al 2013. In realtà la notizia, anticipata ieri da Repubblica, potrebbe leggersi anche così: Apple risparmia 550 milioni di euro. Perché nelle casse statali finirà solo un terzo della cifra contestata ma è su questa somma che l'Erario ha raggiunto un accordo con il gruppo americano.Accordo confermato dalla Procura di Milano, che coordina l'inchiesta a carico di tre manager di Apple accusati di omessa dichiarazione dei redditi: il legale rappresentante e amministratore delegato di Apple Italia, Enzo Biagini, il direttore finanziario Mauro Cardaio e il manager della irlandese Apple Sales International, Michael Thomas O'Sullivan. Risolto il contenzioso tributario, resta però in piedi il procedimento penale. Il caso della Apple non è, inoltre, isolato. Sulle attività di Amazon sarebbero in corso accertamenti della Guardia di finanza ed è stato aperto un fascicolo d'inchiesta (al momento a carico di ignoti e senza ipotesi di reato) dopo una segnalazione preliminare da parte dell'Agenzia delle Entrate. Il primo maggio il colosso dell'e-commerce ha comunque aperto la Partita Iva italiana mentre prima le vendite erano gestite dalla casa madre in Lussemburgo.«La nostra non è stata una risposta alle pressioni fiscale dell'Unione Europea ma un cambiamento di business iniziato due anni fa a livello globale», aveva sottolineato a settembre in un'intervista al Giornale, l'ad di Amazon per l'Italia, Francois Nuyts. È in fase di definizione, inoltre, un accordo tra Google Italia e il fisco per chiudere il contenzioso su una presunta evasione fiscale da parte delle multinazionale californiana. Anche qui le indagini su eventuali responsabilità penali sono, al momento, a carico di ignoti. Il gruppo di Mountain View aveva già siglato un «armistizio» da 320 milioni con l'Erario su un imponibile di 800 milioni in cinque anni.Nella lista delle società soggette ad accertamenti spunta poi la statunitense Western Digital, tra le aziende leader nella tecnologia per hard disk.Lo schema è sempre il solito: i profitti realizzati in Italia dalla multinazionale, sarebbero contabilizzati da società con sede in Irlanda o in altri Paesi dove la pressione fiscale è più favorevole. Nel 2014 Facebook ha versato all'Agenzia delle Entrate 305mila euro, Apple 4,2 milioni, Twitter 40mila euro, Amazon 1,8 milioni e Google 2,1 milioni anche se poi nel nostro Paese fattura circa due miliardi.Quanto a eBay, l'anno scorso non risultano incassi per il nostro fisco anche se la società di aste online qui da noi ha registrato 0,1 milioni di ricavi. I big di Internet si difendono sostenendo che è tutto regolare: le filiali italiane forniscono solo servizi di marketing alle società registrate a Dublino o a Lussemburgo.Di certo, fin dai primi passi della loro rapida espansione, i colossi del web hanno studiato le regole tributarie europee e si sono dati la struttura fiscale «più efficiente possibile», come ripetono i loro manager di fronte alle crescenti accuse di eludere le tasse. In pratica, hanno ridotto al minimo il prelievo che il fisco può far loro in Paesi dove hanno milioni di clienti e dove i rispettivi business si sono diffusi a macchia d'olio, come Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia. Le loro attività ufficiali, al contrario, le hanno concentrate nelle legislazioni fiscalmente più convenienti.Non a caso l'accordo raggiunto tra l'Agenzia delle Entrate e Apple Italia, prevede anche una procedura di «ruling internazionale» per determinare la percentuale delle imposte da pagare in Italia e in Irlanda. La procedura dovrebbe essere valida per i prossimi cinque anni e ha l'obiettivo di «armonizzare la posizione di società che operano in più Stati».