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Декабрь
2025

Nonostante il genocidio, se sei palestinese in Italia resti un corpo sospetto

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Il 27 dicembre mi sono svegliata con una notizia che mi ha tolto il respiro. Non so spiegare esattamente cosa provo: non è solo rabbia, non è solo paura, non è solo stanchezza. È lo shock di capire, ancora una volta, che non importa quanto tu provi a vivere normalmente, a studiare, lavorare, prendere parola, e men che meno che il genocidio è sotto agli occhi di tutti: per questo Stato resti sempre un corpo sospetto.

L’arresto di Mohammad Hannoun, presidente dell’Associazione dei Palestinesi in Italia, insieme ad altre otto persone palestinesi e di altre nazionalità arabe e di religione islamica per presunti finanziamenti ad Hamas, non è avvenuto in un giorno qualunque. Sono state eseguite all’alba, la mattina successiva alle festività natalizie. Il momento in cui tutti – noi compresi – abbassiamo le difese. Quando le reti di supporto sono più fragili, quando ci si illude, anche solo per pochi giorni, di poter respirare.

Non è un caso, a mio avviso. È una tecnica. Durante le festività natalizie gli studenti, che sono tra i principali soggetti della mobilitazione per la Palestina, tornano nelle loro città di origine. Le piazze si svuotano, le persone si disperdono, la capacità di risposta collettiva si indebolisce. È in questo contesto che la repressione colpisce più facilmente: quando siamo divisi.

Io sono palestinese e questo non è il primo risveglio così. Questo schema lo conosco bene. Non riguarda solo chi viene arrestato, ma un’intera comunità, la mia, che viene sistematicamente sorvegliata, criminalizzata e resa vulnerabile. La responsabilità di ciò che è accaduto ad Hannoun e alle altre persone coinvolte non può essere letta come un fatto isolato: si inserisce in un clima politico e mediatico che da anni legittima una narrazione islamofobica, tracciando linee divisorie tra musulmani “accettabili” e “pericolosi”, tra palestinesi “innocui” e “sospetti”.

In questi anni, a terrorizzarmi non è stato Hannoun. Non è stato Shahin. Non è stato Yaeesh. A terrorizzarmi sono stati Israele e gli italiani “buoni” attorno a me: quelli indifferenti, quelli che minimizzano, quelli che hanno bisogno che la violenza colpisca corpi bianchi per indignarsi, quelli che non sanno prendere posizione senza infinite premesse per non disturbare i potenti.

In questi anni, la parola “terrorismo” è stata usata con una leggerezza devastante, come se fosse neutra, come se non producesse conseguenze materiali, quotidiane, violente sui corpi dei musulmani e degli arabi in questo Paese.

Anche il Cred (Centro di Ricerca ed Elaborazione per la Democrazia) ha espresso forti preoccupazioni per il modo in cui è stato costruito questo impianto accusatorio. In particolare, segnala il fatto che materiali provenienti dall’apparato militare israeliano siano utilizzati come elementi di accusa senza un controllo adeguato sulla loro attendibilità. Affidarsi a documenti prodotti da uno Stato direttamente coinvolto nel genocidio, e oggi sotto giudizio internazionale, significa indebolire le garanzie di autonomia e imparzialità della giustizia.

È preoccupante anche il tentativo di far rientrare tutte le attività di solidarietà e assistenza umanitaria nella categoria del “finanziamento al terrorismo”, facendo leva su accuse e classificazioni politiche prodotte da governi stranieri, in particolare quello di Israele. È una dinamica che conosciamo fin troppo bene. Israele ha dichiarato che gli ospedali erano basi di Hamas, e poi li ha distrutti. Ha sostenuto che l’UNRWA fosse Hamas. Ha giustificato il blocco degli aiuti a Gaza sostenendo che, in qualche modo, fossero collegati ad Hamas. Accuse ripetute, smentite una a una, e pagate con il prezzo che sappiamo.

Dopo questa lunga sequenza di menzogne smontate dai fatti, il dubbio avrebbe dovuto essere automatico, quasi ovvio: forse anche in questo caso non dovremmo accettare senza verifica la narrazione del “mandare soldi a Hamas”. E invece no. Ancora una volta, sono i media a raccogliere e amplificare questa accusa senza esercitare alcuna funzione critica, trasformandola in verità indiscussa e contribuendo a demonizzare chiunque sia coinvolto in forme di solidarietà con la Palestina. In questo modo, il diritto smette di essere uno strumento di tutela per diventare un mezzo di pressione politica.

Questo è il terrorismo. Perché serve a costringerci a stare zitti, a dividerci, a prenderci le distanze gli uni dagli altri per sopravvivere. Serve a farci dubitare persino della nostra indignazione, a chiederci se non sia meglio abbassare il tono, scegliere parole meno “scomode”, rendere la nostra esistenza più accettabile agli occhi di chi ha il potere di colpirci. Ma io non voglio rendermi accettabile. Voglio restare fedele allo shock che provo, perché quello shock è lucidità. È la prova che tutto questo non è normale. E scriverne, oggi, è un atto di resistenza.

L'articolo Nonostante il genocidio, se sei palestinese in Italia resti un corpo sospetto proviene da Il Fatto Quotidiano.







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