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Июль
2019

NBA offseason #insideout 2019: abbiamo fatto le pulci alla free agency, eccome se le abbiamo fatte!!

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La prima parte della pazza free agency 2019-2020

L'articolo NBA offseason #insideout 2019: abbiamo fatto le pulci alla free agency, eccome se le abbiamo fatte!! proviene da All-Around.

L’estate più calda della storia! E non parliamo solo del clima torrido, ma anche e soprattutto di ciò che più ci interessa: la NBA, come da noi ampiamente preannunciato, ha subito un tale terremoto che Conference, gerarchie, perfino il gioco, così come lo conosciamo, rischieranno di non essere più gli stessi, quando il rumore della palla e delle scarpe torneranno a risuonare e a stridere sui parquet. Solo lo spettacolo sarà lo stesso, forse anche di più. Siete pronti?

Cominciamo col dire che hanno cambiato casacca Irving, Leonard, Walker, Russell, Durant, Butler, Davis, George, Cousins, Jordan, Paul, Rose e, dulcis in fundo, anche Russell Westbrook.

Ancora: canotta nuova anche per Horford, Iguodala, Green, Conley, Bogdanovic, Randle, Brogdon, Reddick, Morris e, last but not least, Danilo Gallinari.

Così, in ordine sparso, la si direbbe, più che lo spostamento di pedine su una scacchiera, un rimescolamento degno di una tombolata e, a ben vedere, oltre a LeBron James, solo gli splash brothers e le coppie delle meraviglie di Philadelphia e Portland sono rimaste dov’erano.

C’è un minimo comun denominatore che emerge con vigore da questa estate infuocata: nessuno pare accontentarsi più della singola star; né le star si accontentano più di un buon mercato cittadino o di essere i leader di una franchigia. Società e giocatori, ormai, hanno maturato l’assunto secondo cui anche il migliore, da solo, non ce la può fare a generare un ciclo vincente. Vero è che questo sembra entrare in contraddizione con il recente successo di Toronto, costruito intorno a Leonard con l’aiuto di ottimo materiale di contorno, prospetti di sicuro avvenire e comprimari di spessore e sostanza. Ma, probabilmente, le menomazioni fisiche che hanno penalizzato i campioni uscenti hanno lasciato intatto l’assioma: ti servono almeno due campioni, qualche buon titolare e poi…il resto si vedrà. L’unica star che pare essersi mossa verso lidi non immediatamente vincenti è stata Butler, ma gli Heat ci hanno provato, anche loro, a regalargli un gemello: sono solo arrivati secondi nella corsa a Westbrook, tutto qua. Gli altri si sono spostati in coppia o hanno raggiunto le superstar già accasatesi.

Benvenuti nell’era dei superteam! Ci provarono i Lakers, con l’assalto al miglior Chris Paul, ma dei del basket e contingenze astrali non erano ancora propizi. Ci sono riusciti, con intelligenza e savoir faire, i Warriors, segnando di sé un’epoca indimenticabile e, forse, irripetibile nella Baia. Come spesso la storia insegna, dopo averli subissati di critiche e investiti di odio senza eguali, gli avversari hanno capito la lezione, chinato il capo, corciato le maniche, infilato le calzature adatte e seguito le loro orme. Chi disprezza, compra…

LeBron serra i ranghi del suo esercito e torna alla carica: rivuole il trono! Fatta la frittata alla passata deadline, bussando a vuoto alla porta dei Pelicans per aggiudicarsi Anthony Davis nonostante portasse in dono, praticamente, tutto il rebuilding di Magic Johnson e dei Lakers dal ritiro di Kobe in poi, il secondo assalto ha trovato la porta spalancata: “Monociglio”, probabilmente il miglior lungo in attività, ancora giovanissimo, raggiunge sua Maestà e solo questo basterebbe a fare dei Lakers i legittimi pretendenti a rinverdire il blasone della canotta giallo-viola. Restavano da definire i contorni e sembra che i Lakers abbian fatto di tutto per firmare addirittura la terza superstar (Leonard e, prima di lui, Irving). Lasciatemi dire la prima delle mie boutade: è stato un bene che i giocatori in questione abbiano scelto di inseguire altrove le proprie ambizioni, perché questo ha consentito ai Lakers di metter su un supporting cast davvero niente male con l’arrivo, in primis, di DeMarcus Cousins, ansioso di tornare ai suoi fasti ma, già così, pronto a formare una coppia di torri terrificante con Davis! Con la conferma di Rondo e della rivelazione Kuzma e l’arrivo di Danny Green (anche di Dudley e Cook), insomma, qualcosa con cui chiunque voglia mettersi l’anello dovrà fare i conti. Intrigante, anche se i playmaker non mancano, l’ipotesi di schierare LeBron da PG: sarebbe, forse, il quintetto più alto e potente che la storia ricordi e non vedo l’ora di vederlo in campo!

Per un monarca che torna, una dinastia che (forse) abdica: i Golden State Warriors, così come li abbiamo conosciuti e amati oppure odiati (sportivamente), non esistono più. Durant ha rifiutato di rimanere, Iguodala è stato scambiato per fare spazio salariale, Cousins è passato come una meteora nel cielo della Baia, Klay Thompson sarà fuori parecchi mesi per via del recente intervento di ricostruzione del crociato anteriore. In cambio, qualche pezzo pregiato per la panchina e D’Angelo Russell: mica male, per consolarsi, ma, certo, immaginare una squadra con un potenziale anche solo paragonabile a quello di un anno fa pare un esercizio di fede, più che di fiducia…

Anche perché, nel resto della Western… Non mancano, del resto, lupi famelici pronti a balzare addosso alla ex regina ferita! La menzione d’onore, subito dopo i Lakers (si, a mio avviso subito dopo), spetta all’altra sponda di Los Angeles, che, a distanza di qualche anno dal superteam Paul-Jordan-Griffin, riprova l’assalto al cielo con qualcosa, se vogliamo, anche di più clamoroso, costato un all-in sul presente che sa di rinuncia al futuro. Kawhi Leonard, colui che ha regalato il primo titolo ai Raptors, dopo lunga e penosa incertezza fra il Canada e casa sua, ha scelto quest’ultima, ma non sul fronte nobile, bensì su quella che, da sempre (o quasi), è considerata la sponda sfigata, quella senza tifosi VIP, quella il cui pubblico era (o si diceva essere, ma si tratta di pungente satira popolare e null’altro) composto da tifosi Lakers che non avevano trovato, o non potevano permettersi, il biglietto per la propria squadra.

Roba di un tempo che fu, perché i Clippers, oggi, si candidano direttamente al bersaglio grosso: Leonard, infatti, porta in dote nientemeno che Paul George, per una coppia d’assi di una classe, di una potenza, di una intelligenza e dalle qualità difensive come non ce n’è altre in circolazione! Sotto certi aspetti, nulla da invidiare perfino a quella dei cugini. Il prezzo da pagare, per la trade con OKC, è stato altissimo: quasi una cambiale in bianco, con quattro prime scelte future non protette, due protette e un certo Danilo Gallinari che, detto senza velleità patriottiste, è decisamente qualcosa di più che mera merce di scambio. I Clippers, però, confermano anche Beverley, la panchina, vero e sorprendente punto di forza della scorsa stagione, resta pressoché intatta e in più arriva anche Harkless. Due star, supporting cast interessante e intriganti soluzioni tecnico-tattiche, con due ali top 5 della Lega: a Los Angeles si respira aria di anello, se non, addirittura, di finale di Conference in famiglia. Scenario improbabile, ma non impossibile, certo affascinante.

Houston ha dormito sonni tranquilli, sorniona, rintuzzando e sedando le bizze di Paul, evidentemente sempre meno a suo agio con il team. Poi, come per un filo rosso lungo una generazione con Oklahoma, Morey ha fiutato l’aria di smobilitazione in casa Presti ed ha azzannato la preda Westbrook, soffiandola alla concorrenza. In un colpo solo, D’Antoni si ritrova con la coppia di guardie più esplosiva e offensivamente incontenibile di sempre, ricomponendo il tandem che aveva fatto sognare i neonati Thunder. Difficile non scalzare le losangeline dagli scranni più alti del podio, se si pensa che, pur tra le mille difficoltà, i Rockets sono, già da due stagioni, i più temibili avversari dei Warriors e quelli che più sono andati vicino a detronizzarli ad Ovest…

A ruota, le squadre più immutate della Western, arrivate già tra le prime quattro e che nessuno potrà snobbare: Denver (pressoché immutata nelle potenzialità) e i finalisti di Portland, quella squadra che ha raggiunto, sembra, la piena maturità agonistica e che, oltre ad estendere Lillard, aspetta Nurkic: quando tornerà, saranno molto più forti di quelli visti ai playoff; nell’attesa, si sono tolti lo sfizio ed hanno sostituito il sostituto, Kanter, con Hassan Whiteside. Non male, direi.

Menzione d’onore per i Jazz, perché, senza godere della polvere di stelle di queste notti torride, hanno messo insieme una squadra fortissima che potrebbe esplodere e splendere di luce propria: dolorosi gli addii di Favours e (meno) di Rubio, molto potrebbe cambiare nello stile dei mormoni, se è vero che a due attaccanti come Ingles e Mitchell si sommano altri due micidiali fucilieri come Conley e Bogdanovic (quello croato)! Dovessero trovare la quadratura del cerchio tra l’innata attitudine difensiva di coach Snyder e il potenziale offensivo dei suddetti, questi sarebbero una delle peggiori rogne da affrontare, il prossimo anno!

Nessun dorma…E poi ci sono i Pelicans, che avevano nulla da perdere, con Davis sul piede di partenza già da mesi, e tutto da guadagnare, e che hanno portato a casa… i Lakers dello scorso anno più un certo Zion Williamson al draft, liberato Randle, a quel punto zavorra salariale (questa è cattiva: il giocatore ha un potenziale non indifferente), firmato un tiratore come Reddick e un veterano del calibro di Favours: se non il prossimo anno, tra due faranno paura! La Dallas della coppia d’oro europea Doncic-Porzingis, (quest’ultimo rifirmato al massimo salariale), i Kings che hanno buone basi e iniziano a non volerne più sapere di giocare il ruolo di comparse e di pattumiera di contratti e che, oggi, tengono un occhio al presente (Harrison Barnes, Hezonja, Ariza) e uno al futuro (Holmes), zeppi di belle promesse e gente in cerca di immediato riscatto. I Suns, che regalano a Booker un Rubio pronto a togliergli qualche responsabilità e chissà, come scorer, il bomber di Phoenix dove potrà arrivare. Il tutto condito dai Thunder rientrati ai box (ammesso che un Chris Paul e Danilo Gallinari possano essere considerati box…) ma che stanno mettendo gomme nuove e facendo il pieno di carburante per le prossime gare, a furia di fare incetta di prime scelte altrui. Certo che, se c’era un momento in cui iniziare a ricostruire, era senz’altro questo…

E, insomma, se non ci dimentichiamo degli Spurs, che certo non resteranno a guardare e dei T-Wolves, davvero a Ovest nessuno può davvero dirsi sconfitto dalla rivoluzione di luglio!

Per inciso: Melo è ancora senza squadra e Iguodala, pluridecorato veterano ancora sulla cresta dell’onda e reduce da Finals giocate da protagonista (non sempre in positivo, ma insomma…), risulta ancora parcheggiato a Memphis in attesa di sviluppi (appena letto di un interessamento dei Mavs: altro stravolgimento delle gerarchie in vista?!?). Fate un po’ voi…

Il vento dell’Est soffia solo a Brooklyn. A ben vedere (ecco un’altra sentenza), mentre ad Ovest tutti, ma proprio tutti, possono dire di aver fatto il loro in questa FA, a Est si contano vincitori e, soprattutto, vinti. Vinti i Raptors, nonostante l’anello al dito. Vinti gli Heat, che fanno un bel salto con Butler, ma perdono la corsa a Westbrook e alla palma di contender. Vinti i Celtics, che, al tirar delle somme, sostituiscono Irving e Horford con Kemba Walker e Kanter (e scusate, ma non è proprio la stessa cosa, anche se salvano lo juvenile pattern).

E, sospeso il giudizio sulle varie Orlando, Indiana, Phila, Milwaukee, che hanno solo puntellato o messo le pezze alle partenze; fatto il doveroso plauso al processo di ricostruzione di Atlanta e a Detroit, per la prestigiosa firma di Derrick Rose, occorrerà soffermarsi un attimo sulla Grande Mela, perché le sue due squadre si aggiudicano, senza ombra di dubbio alcuno, rispettivamente, le palme di flop e di vincitrice della FA 2019. E le gerarchie, anche in una città di cotanto richiamo, vengono, manco a dirlo, rivoluzionate, spazzate e rivoltate come un calzino. Come ogni angolo di NBA in questa estate caliente.

Ma procediamo con ordine e mettiamo subito in chiaro che non saremo equilibrati, non possiamo: noi facciamo cronaca, per quanto chiacchierata ed emotiva, e il nostro racconto deve seguire il corso degli eventi. Tanto spazio per tante belle realtà uscite rafforzate (almeno sulla carta) dal mercato, ad Ovest; meno, molto meno, spazio e positività ad Est. Non si discute.

Se la Western Conference ci appare, oggi, come un vulcano in ebollizione, la Eastern sembra frastagliata e in scioglimento come la calotta polare: l’MVP indiscusso è volato a Los Angeles, senza che i campioni lo abbiano rimpiazzato in alcun modo. Jimmy Butler ha lasciato Phila e, d’accordo, Horford e Richardson sono una contropartita affascinante, prefigurando un quintetto di giganti con Simmons, Harris ed Embiid, ma, insomma, Butler è stato l’anima di una squadra che è arrivata, tra mille difficoltà, a una carambola di troppo dal cambiare il corso della storia mandando a casa proprio i Raptors… Potenzialità senza limiti, ma tutte da verificare alla prova dei fatti.

I Bucks hanno partecipato al valzer del mercato per cambiare poco e, quel poco, con il preciso obiettivo di non cambiare niente: al di là del folklore della reunion dei fratelli Lopez e Antetokounmpo, perdere Brogdon (ai Pacers: niente male come rimpiazzo di Bogie in ottica futura e di Oladipo, finché non torni, in ottica presente!) andrà assorbito con l’ennesimo, ultimo step up, per legittimare il ruolo che coach Bud e i suoi ragazzi hanno saputo ritagliarsi. Tutti si aspettano, noi compresi, che i Bucks sappiano avviare un ciclo vincente. E stavolta sì, da subito…

Se ancora foste alla ricerca di una “sintesi” in questa favola folle e affascinante, eccovene un’altra: dietro Milwaukee e Philadelphia, stabili le quotazioni dei Pacers e in calo quelle dei Celtics, sospeso il titolo (e il giudizio) dei Raptors per eccesso di ribasso, resta solo da chiarire quale sia, invece, la franchigia più emergente e quale, invece, la più delusa dell’estate. Torniamo, dunque, a bomba…

La Grande Mela, la città che non conosce mezze misure. La città delle mille luci, la città che non dorme mai, la città che non conosce sfumature di grigio, ma solo il bianco e il nero, oggi, dopo un derby di mercato senza eguali, si colora proprio di queste tinte: la guerra del ponte dannunziana che prefiguravamo un mese fa, di fatto, era già in corso e la vincitrice, che ha designato anche la regina del mercato estivo, è una sola enon è quella più attesa, bensì la franchigia di quartiere, i Brooklyn Nets!

I Knicks, signori assoluti della città, anche un po’ immotivatamente snob verso i “cugini di campagna” traferitisi dal New Jersey solo pochi anni or sono, dopo aver corteggiato per mesi Irving e Durant forti di uno spazio salariale senza eguali e tronfi del loro blasone e del fascino irresistibile della Grande Mela, si sono dimenticati proprio dei cugini, non si capisce a che titolo (i Nets erano più forti, più organizzati, più avanti nel rebuilding e, ormai è acclarato, anche più rispettati!), hanno rallentato la corsa dopo l’infortunio di Durant, ed hanno perso, allo sprint, tutto insieme: la coppia di fuoriclasse, lo scettro di contender, il primato cittadino e la faccia, fino a sentirsi in dovere di chiedere pubblicamente scusa ai propri tifosi. Per poi consolarsi con RJ Barrett al draft e correre ai ripari con un mercato che, visto asetticamente e decontestualizzato dalle aspettative disattese, non sarebbe nemmeno così da buttare, ma che, certo, lascia la franchigia nel limbo proprio nell’estate in cui ci sarebbero state tutte, ma proprio tutte, le condizioni per fare il salto di qualità auspicato. Randle su tutti, ma anche Payton, Bullock, Portis, Gibson, oltre alle stelline di casa Robinson e Knox. Discreti giocatori e belle speranze, ma la piazza, una delle più discrepanti tra palato fine e pietanze servite, mugugna non poco…

Al di là del ponte, invece, si gongola. Raggiunti i playoff forse anche con un anno di anticipo rispetto al ruolino di marcia, sacrificato in Russell l’artefice principale, si vince il derby e si portano a casa, tutti insieme, la classe suprema di Durant, il playmaking e la voglia di riscatto di Irving e, ciliegina sulla torta, grazie ad abili trattative e volontà di collaborazione dei neoarrivati, anche la stazza intimidatoria di DeAndre Jordan, per un big three che dovrà aspettare un anno, o quasi, per presentarsi in campo al completo, ma che non può non far sognare e non fare il lifting all’immagine della franchigia, ormai sulla bocca di tutti! Manca ancora qualcosa, certo, ma, dovesse esplodere definitivamente Levert…Nessuno, per lo meno nella Eastern Conference, ha realizzato un salto di qualità di questo tenore: la palma della miglior FA del 2019 va ad occhi chiusi a Sean Marks, chirurgo e scultore artefice del capolavoro del secolo.

Al campo, adesso, l’ardua sentenza, senza dimenticare che mancano ancora tre mesi ad ottobre e che non tutto è stato ancora deciso e scritto, in questa pazza, torrida e rivoluzionaria estate NBA.

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