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Август
2019

FIBA World Cup 2019: una Fort Alamo per difendere l’oro della patria, ecco il Team USA

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Contraddittoria. Non esiste termine che meglio descriva l’estate di Team USA, nelle sue tappe di avvicinamento al mondiale cinese. Nata sotto i migliori auspici, con un santone come Gregg Popovich all’esordio ufficiale, nel ruolo di head coach, in una competizione di spessore mondiale, con l’hall-of-famer Jerry Colangelo come “chairman” e con Steve Kerr come assistant coach (!), la nazionale stars & stripes ha assemblato uno staff tecnico inarrivabile, essere allenati dal quale rappresenta, in sé, un obiettivo per qualsiasi giocatore.

Questa, la teoria… Già, perché, immersi i bei propositi nello Stige della realtà concreta, ciò che riemerge è ben diverso dalle attese: tra malanni più o meno gravi, snobismo nei confronti della competizione (molto poco sentita negli USA, i cui interessi si accendono solo per le Olimpiadi), programmi di preparazione atletica in vista della prossima stagione, voglia di vacanze, timore di infortuni e chi più ne ha, più ne metta, una dietro l’altra le superstar più attese hanno (più o meno) cortesemente declinato l’invito a servire la patria. Qualcuno, più esplicito (sincero?), come CJ McCollum, ci è andato giù pesante, affermando che il suo volto, ad una squadra “perdente”, non ha voglia di darlo lui né nessun altro. Salvo, poi, correggere un po’ il tiro appellandosi ai rischi legati al crescente minutaggio e carico di lavoro a causa delle rinunce da parte dei migliori, con il rischio di compromettere la propria tenuta fisica da marzo in poi, quando le partite conteranno davvero.

Scarso stile o estrema franchezza, giudicate voi. Il risultato, cambiando l’ordine dei sottraendi, tuttavia, non cambia. Wall, Durant, Thompson, ora Lowry, assenti giustificati, una lunga sfilza di rifiuti per preparare al meglio la caldissima NBA 2020 (da AD a Dame), il Pop dovrà apparecchiare un pranzo di nozze con gli avanzi. Che, tuttavia, a ben vedere, proprio fichi secchi non sono, anzi… Quanto basta, tuttavia, per ringalluzzire haters di tutto il mondo e avversari, che “vedono” meno lontana la maglia rosa perennemente in fuga e alzano la cresta (Djordjevic: “Dovessimo incontrarli, che Dio li aiuti”), senza, peraltro, avere soddisfazione dal Pop (“La gente parla, ma non sono cose a cui rispondo”). E quando mai puoi mettere nel sacco un veterano come lui?

Meanwhile… Il povero Carmelo Anthony ha incassato un no anche da Colangelo. Ci sta: in nazionale avrebbe avuto davvero poco senso, ma non è questo il modo in cui dovrebbero spegnersi i riflettori intorno ad un’icona del basket. Tifiamo per lui: merita one last ride (rendo omaggio, così, in un colpo solo, a Melo e ai grandi Molly Hatchet!).

Come Davy Crockett… Fatto sta che il camp americano, prima a Las Vegas, ora sceso in California (tra Los Angeles e Anaheim), a breve in procinto di volare in Australia, alla luce dell’esiguo numero di reduci rimasti al fianco del veterano Popovich, assediato com’è dalle ambiziose armate europee, contestato ad ogni passo falso anche in patria, ricorda da vicino Fort Alamo (guarda caso, a due passi dalla casa del Pop) e gli eroi di Davy Crockett. Nella speranza di affrontare sorte migliore di quella toccata ai ribelli texani, la Selezione (più naturale che tecnica, verrebbe da osservare…) sta svolgendo un buon lavoro di preparazione ed ha già dato qualche indicazione sulla direzione che il coach intende intraprendere. Anche qui, tra mille contraddizioni…

Punti interrogativi… Le prime uscite, se possibile, hanno ulteriormente alimentato i dubbi, compagni di viaggio instancabili per team USA: se il primo allenamento contro il Select Team sembrava aver trasmesso qualche vibrazione positiva e dato qualche indizio su ciò che dovremo aspettarci in campo (ci torniamo a breve), lo scrimmage sostenuto contro un’armata Brancaleone assemblata con giocatori di G-League, leghe europee e cinese, pur durato meno di un tempo, è stata una débâcle clamorosa e la stampa nordamericana, mai tenera con chi sbaglia, gli ha dato ampia risonanza. Forse eccessiva: perfino il dream team del 1992 uscì malconcio da una partitella di venti minuti contro una selezione NCAA! Ma questa è una storia (se siete ancora sotto l’ombrellone e siete a caccia di aneddoti, fate un giretto sul web: ne varrà la pena) di tutt’altro tenore e, soprattutto, tutt’altro spessore rispetto alla nazionale che, faticosamente, sta prendendo forma tra le mani assiomatiche, quelle sì, di Popovich.

Il primo banco di prova vero, tuttavia, contro la Spagna, ha rinfrancato non poco: questa selezione è competitiva, altroché! Sul parquet di Anaheim si è vista una squadra che lotta, gioca, corre, difende, ruota e non fa molta fatica a regolare l’avversario, tenuto a distanza di sicurezza abbastanza agevolmente per tutta la durata del match. Le gerarchie sono, ovviamente, ancora tutte da definire (nessuno in campo meno di 6′, nessuno più di 23), i carichi di lavoro pesano e la chimica è ancora lì, da qualche parte, per strada (23 turnover), ma il gioco prende forma e per gli avversari si fa notte presto…

La rosa. Partiti in 17 titolari e altri 15 giovani e giovanissimi, guidati da Jeff Van Gundy, in funzione di sparring partner, Popovich ha chiamato in prima squadra, invece, ben quattro di questi: Bagley, Fox, White ed Harris. Un po’ a sorpresa (almeno per me) sono arrivati anche i tagli di Thaddeus Young e Bam Adebayo: sale la quota di talento, a mio avviso, ma cresce lo sbilanciamento a favore del reparto esterni e rimane in squadra (e in lizza per entrare tra i 12 della spedizione cinese) un solo lungo tradizionale e neppure di primissima fascia (per quanto, a parere del sottoscritto, abbia ultimamente ampliato i propri skills tecnico-tattici): Mason Plumlee.

Al momento, il roster a disposizione dello staff e dal quale emergeranno i 12 coraggiosi pronti a volare in Cina per difendere la medaglia d’oro si sta scremando praticamente da solo, stanti le recenti rinunce di Bagley, Lowry (test medici non superati causa intervento al pollice subito a luglio) e, da ultimo, PJ Tucker (distorsione alla caviglia presa a pretesto) e le condizioni di Marcus Smart, da rivalutare a breve per l’infortunio al polpaccio subito durante il camp. Dovesse saltare anche lui, ne resterebbero solo 13: gli esterni Donovan Mitchell (Jazz), Kemba Walker, Jaylen Brown e Jayson Tatum (Celtics), De’Aaron Fox (Kings), Khris Middleton (Bucks), Derrick White (Spurs) e Joe Harris (Nets) e i lunghi Mason Plumlee (Nuggets), Harrison Barnes (Kings), Kyle Kuzma (Lakers), Myles Turner (Pacers) e Brook Lopez (Bucks).

Kemba pare il leader naturale e, a sentirlo parlare e a vederlo in campo, durante gli allenamenti e nelle partite fin qui giocate, sembra incarnare già il ruolo. Il suo arresto e tiro dalla media ne fanno un interprete naturale delle idee del Pop, alle quali, tuttavia, occorre dare il giusto peso: anni di lavoro con un guru europeo come Ettore Messina e lo spettacolo della second unit vista a San Antonio lo scorso anno, sorprendente primatista nel tiro da tre tra le panchine NBA, devono far riflettere sull’elasticità filosofica del coach.

Lo scacchiere del Pop. Le caratteristiche dei big men “sopravvissuti” ai primi tagli, tutti dotati di ottimo tocco lontano dal ferro, capaci di aprire il campo e di trattare la palla attuando le tre minacce; i primi movimenti visti sul campo finora, con i pick and pop, i lunghi impiegati fronte a canestro, l’uso dei blocchi atti a liberare il portatore di palla o il tiratore e a forzare mismatch, lasciano presagire una certa idea di pallacanestro. Contro la Spagna il leit motiv è parso, lungamente, quello delle spaziature, che hanno garantito tanto l’apertura del campo, quanto la giusta selezione nel tiro dalla lunga (11/19 dall’arco). Giochi semplici e spesso vincenti, anche grazie alla qualità del reparto esterni a disposizione. La presenza di tre tiratori puri come Tatum, Middleton e Harris contribuisce a rafforzare l’idea che sia questa la via maestra indicata dal guru texano.

L’assenza di un inequivocabile go-to-guy è bilanciata proprio della figura del coach, fautore, da sempre, di un basket sistemico e di squadra.

Il potenziale offensivo non fa certo difetto a una rosa che, quali che siano le prossime scelte, sarà comunque profondissima, dotata di notevole versatilità e di un talento medio che, pur non di primissimo livello se parametrato sui canoni NBA, merita comunque deferente rispetto da tutte le avversarie.

Sarà da verificare la tenuta difensiva, specie sotto canestro e soprattutto quando, al momento del dunque, ci saranno da fronteggiare i colossi serbi o quelli spagnoli, in una partita che conti per davvero. L’attitudine difensiva di Popovich e di Kerr (avvezzo all’uso di quintetti piccoli) sarà garanzia sufficiente? Al momento ci pare questo il punto interrogativo tecnico più pressante, ma non certo l’unico.

Restano, tuttavia, gli ultimi samurai americani, pur sempre i campioni in carica e la squadra da battere, non ci piove! Noi di #allaround.net ci saremo, con la sezione NBA tutta dedita a seguire la loro traiettoria mondiale. E voi?

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