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Февраль
2022

Due anni di Covid in Veneto, come siamo cambiati. Crepet: «Un fondamento, mai più scuole chiuse»

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Due anni di Covid in Veneto, come siamo cambiati. Crepet: «Un fondamento, mai più scuole chiuse»

Il racconto di ventiquattro mesi di pandemia in Veneto con oltre 13 mila morti ufficiali. Lo psichiatra: «Ci serve un mondo più equo, pulito e sostenibile. Bisogna ripartire dal merito: abbiamo competenze diverse»

VENEZIA. Ci sono episodi della storia collettiva che intercettano e si cicatrizzano inevitabilmente nelle vite individuali di ognuno. Lo è stato l’attentato alle Torri Gemelle, lo sono stati gli attacchi di Parigi e di Bruxelles. Episodi che, per quanto distanti nello spazio e lontani dalla nostra quotidianità, finiscono inevitabilmente per rigarla, ferirla.

Due anni di coronavirus

Tutti ricordano esattamente cosa stavano facendo quando la diretta da New York irruppe nel palinsesto dell’11 settembre 2001. Tutti ricordano cosa stavano facendo il 21 febbraio di due anni fa, quando i n Italia si registrò la prima vittima di Coronavirus, allora si chiamava così.

Accadeva a Vo’, all’interno di quel recinto territoriale che per noi è “casa”. Paesino dei Colli Euganei di 3 mila anime, dalla sera alla mattina sbattuto sulle prime pagine dei principali quotidiani del pianeta. Improvvisamente, palcoscenico tra i più spiati. Tutti ricordano cosa stavano facendo quando la notizia venne diffusa dalle tv, in rete. Quando fu scalfito quel velo di scetticismo che interpretava le notizie che arrivavano come l’ennesima minaccia da Oriente, dalla risonanza enormemente maggiore del pericolo reale.

I primi casi in italia

I primi casi di Covid in Italia furono registrati il 30 gennaio. Si trattava di una coppia di turisti cinesi in vacanza a Roma. Durante il viaggio, i due avevano fatto tappa a Verona. Ci fu un dispiegamento di forze enorme per ricostruirne i movimenti, rintracciare le persone con cui erano entrati in contatto, pulire i luoghi che avevano vissuto. Comportamenti che, nei mesi a seguire, avrebbero avuto una dicitura precisa: tracciamento, sanificazione.

Ma il Covid era ancora un timore tra i tanti. Motivo di battute. E che, come sola conseguenza, era riuscito ad alimentare razzismi e diffidenze latenti: la fuga dai ristoranti di sushi, gli insulti ai cittadini di origine cinese. Poi sarebbe diventato altro. Dopo ancora sarebbe cambiato tutto. Forse per sempre.

Due genitori al Check point 1 lasciano la bici al figlio costret

Vo’ zona rossa

È il 23 febbraio 2020. Da due giorni, Adriano Trevisan – 77 anni, di Vo’, titolare di un’impresa edile, in pensione – è la prima vittima di Coronavirus in Italia. Vo’ viene stretto da una cintura di controlli, che erige un muro tra due pianeti. Impermeabili e impenetrabili.

La cappa della paura inizia a calare sul paesino dei Colli. Cominciano a farsi strada sensazioni inedite. La diffidenza verso il “diverso”, abbracciata come comoda scusa per dar sfogo alle emozioni meno confessabili, diventa terrore vero. Verso il proprio compagno, verso la persona più vicina. C’è Vo’ e c’è il mondo fuori. Per 14 giorni.

Era soltanto la miccia di una bomba che sarebbe deflagrata ripetutamente. La prima scossa di uno tsunami che avrebbe sommerso tutto, livellando ogni differenza.

Rendendosi artefice del più grande processo di trasformazione collettiva del nostro tempo. «Mi auguro che questo enorme dolore, che tutti abbiamo provato negli ultimi due anni, questo gigantesco dramma ci faccia almeno capire che può esistere un mondo migliore rispetto a quello che avevamo costruito prima» sostiene lo psichiatra Paolo Crepet.

san marco.jpg

Quello che siamo diventati

I 56 giorni di lockdown sono lo spartiacque tra quello che siamo stati e quello che siamo diventati. Le spiegazioni dei professori risuonano nelle camerette attraverso le casse dei computer, i ristoranti chiusi, le insegne spente dei negozi, le uscite con una giustificazione prestampata in tasca, gli abbracci proibiti, la paura. La processione, silenziosa, dei camion che escono da Bergamo, carichi di bare, diretti ai forni crematori delle altre città.

L’impatto emotivo di quei giorni – quando gli arcobaleni dipinti sulle finestre e le canzoni cantate dai balconi hanno fatto spazio a un rispettoso silenzio – è stato in parte dimenticato. Pregi e colpe del tempo. «Ma, se stiamo uscendo da tutto questo, il merito è del merito: è la grande lezione che dobbiamo sempre tenere a mente», dice Crepet.

«Noi non siamo uguali. Abbiamo competenze, talenti e intelligenze differenti. E non ci sarà futuro economico, se non a partire da queste basi».

Campagna di vaccinazione anti Covid 19 al Policlinico Umberto I

Il Paese che si spacca

L’economia, a proposito. Messa in ginocchio dall’alternarsi delle zone rosse, arancioni, gialle. Poi dal Green pass. Messa in ginocchio dai confini chiusi di Paesi, Regioni, persino dei Comuni. Le manifestazioni dei commercianti, disperati nel chiedere solo di lavorare.

Le prime crepe. Il chiarore del «Ne usciremo migliori», che diventa speranza sempre più fioca. La prima faglia. Vaccinati e No vax. Il Paese che si spacca. Il 27 dicembre prendeva avvio la più grande campagna di profilassi della storia. Una serie di iniezioni dimostrative ai medici, agli infermieri, agli operatori socio-sanitari.

Simboli ed eroi del nostro tempo. I loro volti sfatti, segnati dalle mascherine indossate per ore: istantanee capaci di tenere insieme due anni di dramma, collettivo e individuale.

«Dobbiamo guardare queste persone e provare profondo rispetto e gratitudine. Perché hanno teso la mano a chi avevano davanti, senza chiedere né voler sapere nulla. Sottraendo milioni di persone a una morte certa» dice Crepet.

Le vittime ufficiali in Veneto sono ad oggi 13.704. È come se una cittadina di medie dimensioni fosse stata spazzata via. Come se di Ponte San Nicolò, Casale sul Sile, Cavallino-Treporti o Borgo Valbelluna non restasse più nulla. «Il nostro rispetto più profondo lo dobbiamo a loro» dice Crepet.

Intanto la pandemia ci veniva raccontata da un nuovo giro di volti, fino a quel momento limitato alle aule degli atenei. Crisanti, Viola, Palù: l’orgoglio dell’Università padovana conteso da tutto il Paese.

Cosa accadeva fuori

Fuori, si sono alternati due Governi, sotto Giuseppe Conte e sotto Mario Draghi. Il Presidente della Repubblica è rimasto lo stesso, Sergio Mattarella. Non è variato nemmeno il presidente di Regione, Luca Zaia. Ha raccontato la pandemia dal principio, condividendo con i cittadini mosse e decisioni, con un appuntamento quasi subito divenuto quotidiano: la conferenza stampa delle 12.30, trasmessa in diretta Facebook dalla sede della Protezione civile di Marghera.

Passavano soprattutto da qui narrazione e cronaca – questo è stato – di notizie e scelte che avrebbero condizionato le vite lavorative, sentimentali e familiari.

VERSO CHIUSURA SCUOLE NELLE ZONE ROSSE E AD ALTO CONTAGIO

Le scuole chiuse

È passata da qui la decisione di non riaprire più le scuole, nel 2020; o la decisione di chiuderle, l’anno successivo. Forse la scelta più criticata.

«Questo sia il fondamento di quello che non dobbiamo più essere», scandisce Crepet. «La scuola è un’istituzione primaria e non va chiusa per nessuna ragione al mondo. Perché neanche i nostri nonni lo avevano fatto durante la guerra. La scuola, allora, si faceva anche nei rifugi anti bombardamento, e da lì è nato il boom del Veneto. Un boom che, vent’anni dopo, avrebbe permesso all’economia di iniziare a correre, avrebbe aperto le porte dello sviluppo e del benessere. Tutto partito dal desiderio che i bambini imparassero in qualsiasi condizione».

Una stagione che, incassati i colpi della crisi, tenendo basso il vento freddo che soffia dall’Est Europa, potrebbe aprirsi con il denaro che vuole risollevare il Paese. Ridisegnarne il futuro: più equo, più sostenibile, più pulito. «È la più grande opportunità della storia» sostiene Crepet.

«Nelle nostre mani abbiamo una montagna di soldi per migliorare la nostra società. Se lo sapremo fare, significherà aver colto l’occasione più grande. Altrimenti, significa che non abbiamo capito nulla».





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