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Май
2024

Il Sassuolo retrocesso in B: storia della favola che a lungo andare ha finito per annoiare (ingiustamente)

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Il Sassuolo retrocesso in B: storia della favola che a lungo andare ha finito per annoiare (ingiustamente)

Il problema delle favole è che a lungo andare finiscono per annoiare. E dopo aver passato anni interi a coltivare una certa simpatia per Beep Beep, prima o poi la gente inizia sempre a fare il tifo per Willy il Coyote. Ne sa qualcosa il Sassuolo, il club che dopo essere partito dalla periferia del […]

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Il problema delle favole è che a lungo andare finiscono per annoiare. E dopo aver passato anni interi a coltivare una certa simpatia per Beep Beep, prima o poi la gente inizia sempre a fare il tifo per Willy il Coyote. Ne sa qualcosa il Sassuolo, il club che dopo essere partito dalla periferia del calcio tricolore aveva sperato di poter diventare finalmente centro. Almeno fino a ieri sera, quando dopo la sconfitta contro il Cagliari è tornato di nuovo nella polvere della provincia. E tutto nel disinteresse generale. Una parabola lunga undici anni in cui la squadra neroverde è stata tante cose e tutte insieme per il pallone italiano. Prima parvenu della Serie A, poi incubatrice dei giovani destinati a vestire l’azzurro, squadra simpatia per chi non trovava una formazione a cui appassionarsi, avventuriera in Europa. E poi ancora laboratorio di idee dove poter sperimentare senza grandi pressioni, bottega decisamente cara dove fare acquisti, entità fin troppo ostinata nel voler restare nel calcio che conta. Così al Sassuolo è stato contestato sempre lo stesso identico dettaglio.

Lo hanno fatto media, tifosi, addetti ai lavori. Fino a creare un ritornello che si è trasformato poi in tormentone. Al club neroverde è stato rimproverato di essere la manifestazione del potere economico del suo presidente, una realtà di plastica, anzi di malta cementizia, espressione di un paese di quarantamila abitanti, senza un bacino di utenza e né tantomeno tradizione, tenuto in piedi dalla Mapei di Giorgio Squinzi, che aveva di fatto brandizzato la società. Come se dietro alle grandi del calcio ci fossero onlus senza scopo di lucro. Come se le altre non avessero accresciuto il proprio blasone senza enormi iniezioni di capitale. In verità negli ultimi undici anni il Sassuolo è stato soprattutto un esperimento, un luogo dove portare a termine ciò che altrove era impossibile fare. Per limiti di tempo e di pazienza. Ma anche per l’indifferibile necessità di ottenere una qualsiasi coppa.

La lista dei giocatori che in neroverde hanno ritrovato se stessi o che hanno usato la società come trampolino di lancio è pressoché sterminata: Zaza, Acerbi, Paolo Cannavaro, Vrsaljko, Lorenzo Pellegrini, Defrel, Sensi, Scamacca, Politano, Frattesi, Locatelli, Raspadori, Caputo, Pinamonti. Calciatori con parabole diversissime, ma con il minimo comun denominatore del Sassuolo come momento di svolta nella loro carriera. Domenico Berardi è un discorso a parte, un caso di studio. Un attaccante che sembrava avere la Juventus nel destino e che invece si è ritrovato a diventare una bandiera neroverde. Prima perché il Sassuolo ha rifiutato qualsiasi offerta ragionevole. Poi perché l’esterno aveva detto chiaramente di voler inseguire l’Europa con il Sassuolo piuttosto che giocare nelle coppe continentale come riserva di qualche grande club. Una scelta che aveva fatto storcere il naso a molti, come se fosse stato il club a inibire a Berardi di diventare grande, di accumulare esperienza utile anche per la Nazionale. L’incipit della favola del Sassuolo viene scritto nel 2002, quando il club che galleggia nelle acque limacciose della C2 viene acquistato da Giorgio Squinzi.

Per il primo salto di categoria ci vogliono quattro anni. Ed è Gian Marco Remondina a portarlo in C1. Poi nel 2007/2008 Massimiliano Allegri riesce addirittura a centrare il grande balzo in Serie B. Sembra un miracolo passeggero, una fiamma destinata a spegnersi presto. Invece il Sassuolo diventa piano piano una realtà. Nel 2010 sfiora la promozione in massima Serie con Stefano Pioli. Poi nel 2013 centra l’impresa con Eusebio Di Francesco. Il primo anno fra i grandi ha il sapore dello stordimento. Di Francesco viene licenziato alla 21sima giornata e poi ripreso alla 27sima, dopo un filotto di cinque sconfitte senza appello in altrettante partite che diventeranno l’epilogo della carriera da allenatore di Alberto Malesani. Nei tre anni successivi Di Francesco detta la linea. Il Sassuolo diventa un club dalla filosofia “giochista“, qualunque cosa voglia dire, ma si prende anche la soddisfazione di arrivare in Europa League. Nell’anno del signore 2016/2017 batte prima il Lucerna e poi la Stella Rossa di Belgrado negli spareggi per accedere alla fase a gironi. Alla fine viene inserita nel Gruppo F insieme a Genk, Rapid Vienna e Athletic Bilbao. L’inizio è addirittura esaltante. Nella sua prima in Europa League la squadra di Di Francesco batte addirittura i baschi. È un risultato clamoroso. Ma il Sassuolo si ferma più o meno lì. Strappa due pareggi con il Rapid, poi perde tutte le altre sfide. La corsa è finita. Si riparte dal campionato. Anche perché il treno per l’Europa non ripassa più. Con De Zerbi finisce una volta undicesimo e due volte ottavo. Con Dionisi sembra poter aprire un altro ciclo. Invece chiude ancora undicesimo. Prima del tredicesimo posto dell’ultima stagione. Il mercato comincia a essere avaro. Si spende meno. E anche meno bene (Volpato e Kumbulla, arrivati in momenti diversi dalla Roma, rappresentano piuttosto bene il problema). Il resto è storia recente.

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