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Апрель
2024

Roberto Petri va in pensione, il chirurgo dell’esofago: non lavorerò nel privato

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«L’esperienza fatta in un anno e mezzo alla Casa di cura a Pordenone mi è servito per capire che la struttura privata non faceva per me. Resto fedele alla mia motivazione e non sarà quella la mia strada». Con queste parole Roberto Petri, il chirurgo udinese, laureato a Padova nel 1982, direttore del Dipartimento chirurgico dell’Azienda sanitaria universitaria Friuli centrale (Asufc) ed esperto della patologia dell’esofago, smentisce le voci che da pensionato - lo è dal giorno di Pasquetta - lo danno in ingresso al policlinico Città di Udine.

«Se lo scrive mi fa un piacere. Senza nulla togliere alla struttura, escludo nella maniera più totale il mio trasferimento al policlinico» assicura Petri nel ripercorrere gli anni della sua formazione sotto la guida di maestri di primo piano come i professori Andrea Bergnach all’ospedale di Tolmezzo e di Fabrizio Bresadola nell’allora Policlinico universitario di Udine.

Perché il privato non fa per lei?

«Perché la salute deve avere una parità nella gente e perché ritengo che il privato debba essere un pochino in subordine. Sarebbe bene che il privato serio fosse in rete con il pubblico. L’anno e mezzo che ho lavorato a Pordenone mi ha fatto capire queste cose e quando è scaduta l’aspettativa sono rientrato all’ospedale di San Daniele occupandomi della chirurgia laparoscopica che è sempre stata il mio pallino, poi ho vinto il concorso da primario a Latisana e un anno e mezzo dopo mi è stata offerta la possibilità di andare a lavorare a Tolmezzo-Gemona da dove ero partito nel 1986».

Ritiene possibile la collaborazione tra pubblico e privato?

«Il privato accreditato deve fare la sua parte in rete con il pubblico come già fanno i vari ospedali tra di loro».

Deve diventare un po’ pubblico?

«Deve diventare un po’ pubblico come mentalità».

Perché il privato riesce a fare numeri superiori e a tagliare le attese?

«Perché seleziona le patologie, cosa che il servizio pubblico non può fare. Non affrontando pazienti e patologie complesse è chiaro che il privato riesce a fare altri numeri»

La sanità pubblica è in pericolo?

«Ci sono cose che il privato non potrà mai fare. La patologia dell’esofago, a esempio, deve essere trattata in un ospedale hub non solo perché è impegnativa dal punto vista chirurgico, ma perché richiede la collaborazione di altre branche della medicina. Il paziente deve poter contare su tutto quello che serve per fronteggiare eventuali complicanze».

Udine è centro di riferimento regionale per la patologia dell’esofago: quanti casi tratta all’anno?

«Nel 2005 sapevamo di essere i primi in Italia, ma grazie alla collaborazione di chirurghi di altre sedi, oggi copriamo il fabbisogno regionale con un’incidenza del tumore all’esofago più alta della media nazionale»

Come mai?

«Complici gli stili di vita, il fumo e l’alcol, in Friuli Venezia Giulia ci stiamo assestando sul doppio dei nuovi casi annui per 100 mila abitanti. Abbiamo raggiunto anche il triplo, nove, complessivamente ne trattiamo 30 all’anno».

È un numero sufficiente per un centro chirurgico?

«Il minimo è 20, noi l’abbiamo superato abbondantemente. Non tutti i nuovi pazienti sono operabili, oggi lo stabilisce il team degli specialisti non più solo il chirurgo. Questo è l’esempio di come dovrebbe funzionare la rete»

Si può fare chirurgia in ogni sede?

«Bisogna selezionare, fare quello che fanno i privati senza rischiare di creare chirurghi e ospedali di serie A e B».

Si riferisce anche alla chirurgia d’urgenza?

«Bisogna selezionare il tipo di urgenze gestibili solo negli ospedali hub e quali possono essere gestite negli spoke. E perché non ci sia una differenza di classe tra professionisti che operano nelle due sedi, sarebbe importantissimo che ci fosse quella che viene chiamata mobilità dei professionisti».

Spostamenti da un ospedale all’altro?

«Per periodi da decidere quanto lunghi o su determinate patologie di interesse, almeno a livello aziendale, è necessario poter decidere assieme e se il professionista è interessato deve poter seguire la patologia».

È un modo per stimolare i professionisti?

«Si lo è. Ma la questione della specializzazione è una cosa molto realistica. Rispetto a 40 anni fa, il livello richiesto dal paziente è maggiore e quindi ci sta che ci sia una sotto specialità. Nel gruppo che dirigevo c’erano i sotto gruppi che si occupavano di pancreas, fegato, esofago, stomaco e colon».

Qual è il ruolo del direttore?

«Quello di trasmettere il metodo e di lavorare sull’unità del gruppo perché, chiaramente, ci sono alcuni che vorrebbero fare solo una piccola parte, mentre tutti devono fare le guardie, le notti, i turni e le reperibilità. Il gruppo deve rimanere unito e avere obiettivi comuni: questo dovrà essere vero quando gli ospedali saranno veramente in rete».

A chi ha passato il testimone? Chi sarà il suo sostituto?

«Spero di averlo passato a tutti i miei collaboratori anche se, come accade in tutti i gruppi numerosi con una ventina di persone, qualcuno è più contento di altri. Quando non c’ero venivo sostituito dal professor Alessandro Uzza e dalla dottoressa Chiara Lirusso che che ha gestito più di tutti la parte della chirurgia d’urgenza. Credo che sia un bene per l’azienda se lei continuerà a occuparsi di questa parte cercando, come negli ultimi anni ho fatto anch’io, una stretta collaborazione con la clinica chirurgica universitaria».

Il suo successore è un vincitore di concorso?

«È un vincitore di concorso pubblico (Graziano Ceccarelli arriva da Foligno ndr), io mi ero impegnato affinché ci fossero candidati di spessore. Proprio perché Udine è hub riconosciuto per la patologia esofagea e il tratto gastrointestinale superiore, è possibile che la Direzione nomini come facente funzione il responsabile di questo gruppo che è il dottor Massimo Vecchiato».

Quali maestri ha avuto?

«A Tolmezzo sono stato l’ultimo allievo del professor Andrea Bergnach, mi chiamava “cucciolo”, e anche dopo il suo pensionamento la stima era tale che, a detta dei suoi figli, sono forse il figlio più importante che ha avuto. A Udine un altro maestro importante è stato il professor Fabrizio Bresadola».

Ci sono ancora i maestri?

«Negli ultimi 40 anni la chirurgia è cambiata radicalmente, gli interventi che mi avevano insegnato Bergnach e Bresadola non si fanno più».

Perché?

«Perché è cambiato l’approccio metodologico, sono mutate le tecniche. Abbiamo capito che la mini invasività non è una cosa da poco, sto parlando del danno che il chirurgo fa e che con le tecniche mini invasive viene ridotto al minimo».

Cosa resta degli insegnamenti di allora?

«Il Metodo con la M maiuscola».

Cosa significa Metodo?

«Vuol dire – questo l’ho imparato da Bergnach e Bresadola – che la centralità del paziente è fondamentale e deve essere l’unica cosa che ci muove. Pensare di fare una scelta perché hai gli strumenti per farla o perché è venuto un tizio che ha una sua influenza e ti arrivano le telefonate, è sbagliato. Oltre ai protocolli, devi pensare al paziente che hai di fronte come se fosse la persona a te più cara. Questa frase la ripeteva il professor Ventura, il maestro di Bergnach».

C’è il rischio che il Metodo venga contagiato dalla politica dei costi?

«La chirurgia mini invasiva ha accorciato i ricoveri e ridotto i costi dell’intero percorso, questo è un bene per il paziente che sta meglio a casa».

Un giovane chirurgo quali caratteristiche deve avere?

«Un nuovo collaboratore su cui investire deve essere motivato e disponibile».

C’è un intervento che l’ha colpita più di altri?

«Compatibilmente con la mia memoria tutti. La cosa che ricordo con affetto è il primo intervento all’esofago con la tecnica mini invasiva. Nel 2005 sapevamo di essere i primi in Italia poi attorno a questo si è creato il gruppo».

È un’eccellenza?

«Facciamo parte di una decina di ospedali di riferimento in Italia».

Come valuta il dibattito politico sulla sanità?

«I politici fanno il loro mestiere, ma quando litigano neanche noi siamo sereni. Non vedrei bene un professionista schierato con la politica, anche il medico deve fare il suo mestiere».

Ha mai pensato di spostarsi fuori regione?

«Ho ricevuto offerte importanti in giro per l’Italia, ma ho sempre pensato che lavorare per la mia gente fosse un di più».

A 67 anni compiuti avrebbe potuto continuare a lavorare fino a 72, perché non l’ha fatto?

«Ho pensato che nella vita ogni tempo ti dice cosa fare, l’idea di restare con il bisturi in mano fino all’ultimo giorno non la ritenevo adatta. Serenamente ho iniziato a far crescere il gruppo e mi sono dato questa scadenza senza alcuna forzatura».

Cosa farà da grande?

«Il nonno sicuramente. Altre cose vedremo. Mi piacerebbe continuare a far parte del Nucleo etico per la pratica clinica».





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