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Lenin: cento anni dalla morte di un dittatore (rivoluzionario)

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Il 21 gennaio 1924 moriva il fondatore dell’Unione Sovietica e del suo comunismo di regime. Una vita di lotte, sconfitte, vissuta in esilio fino al rovesciamento del sistema zarista. E poi, la costruzione del nuovo Stato basato su una gerarchia di vertice e sul più rigido controllo politico. La scomparsa di questa figura carismatica diventò lo spunto per la celebrazione di un potere che di «popolare» aveva soltanto il nome.

Lo consideravano morto dal 6 marzo 1923 perché un ictus gli aveva tolto la parola e in nessun modo riuscivano a provocargli un barlume di interesse. Tuttavia, quando Lenin - Vladimir Ilic Uljanov - morì per davvero, la mattina del 21 gennaio 1924, gli apparatchik comunisti furono colti alla sprovvista al punto da ritardare l’annuncio ufficiale fino alle 19 «quando già si era fatto buio». Occorreva nominare la Commissione responsabile per la sepoltura e incaricarla di organizzare i funerali di Stato che dovevano avvenire in pompa magna per dimostrare la potenza russa e sfruttare l’avvenimento in chiave politica. Si trattò di disciplinare chi avrebbe formato la guardia d’onore, in quale gerarchia dovevano disporsi i potenti dell’Unione Sovietica, dove collocare i gagliardetti delle associazioni e come allineare le corone di fiori (se ne contarono 821). Furono costretti a rimandare anche la cerimonia. Le delegazioni che venivano da lontano, con i mezzi di comunicazione di allora - che erano quelli che erano - chiedevano più tempo per raggiungere Mosca. E lo scavo della fossa per interrare Lenin risultò problematico perché il suolo ghiacciato resistette a pale e picconi che si spezzavano. Alla fine, utilizzarono delle piccole cariche esplosive che aprirono un solco di un paio di metri dopodiché gli addetti poterono continuare con mezzi tradizionali per una profondità di decine di metri.

Il corpo del «padre della patria» non poteva resistere a lungo senza decomporsi. Vladimir Vorobev, ucraino e Boris Zbarskij, capo dei medici russi, furono incaricati d’imbalsamarlo (con tecniche non ancora compiutamente descritte) per assicurare che il cadavere mantenesse un’espressione «da vivente». Il 23, da Gorki (dove Lenin morì) un primo corteo per accompagnare la salma alla stazione. Da lì, a Mosca e poi nel salone d’onore della Casa dei sindacati. Per tre giorni e quattro notti almeno cinque milioni di russi sfilarono davanti al feretro in un contesto scenografico capace di trasformare la morte in uno show. Lampadari oscurati con teli di velocrespo e fiori ovunque «che trasformarono la camera ardente in orangerie». Le foglie di palma simboleggiarono la vita eterna, le querce richiamarono la gloria mentre le piante verdi testimoniarono il rigoglio della fede comunista. E poi drappeggi di stoffa nera e rossa con coccarde, stendardi e striscioni srotolati per centinaia di metri. Inizialmente il cadavere fu vestito con la casacca militare che, in un secondo momento, venne sostituita da un elegante completo nero. Pietrogrado chiese l’onore di offrire piazza delle Vittime della Rivoluzione come luogo di sepoltura a Lenin. Gli consentirono soltanto di cambiare nome diventando Leningrado, di partecipare ai funerali con una delegazione di 1.200 persone e di accendere, durante il funerale, 54 falò: uno per ogni anno di vita del morto. Per il resto si prese tutto Mosca.

La mattina del 27, alle 9, la bara rivestita di tessuto rosso venne spostata a braccia da Iosif Stalin (già «padrone» dell’Unione Sovietica) dal presidente dell’Internazionale comunista Gregorij Zinov’ev e da sei operai. Subito dietro la bara la moglie di Lenin Nadezda Krupskaja delle quale - non si sa in che modo - apprezzarono «l’atteggiamento di compagna di lotta più che di vedova inconsolabile». Un camminare lento, quasi snervante, fino alla Piazza Rossa. La salma fu accolta dai vertici del partito comunista Michail Kalinin, Lev Kamenev, Dmitrij Kurskij e da quattro delegati dei soviet: due di provenienza operaia e due contadini. Non c’era Lev Trockij che Stalin depistò con messaggi volutamente ambigui. Alle 16 la bara fu calata nella cripta. L’accompagnarono l’eco delle salve di fucili e cannoni. La deificazione di Lenin cominciò subito a dispetto di chi (la rivista «delle arti» Lef, per esempio) ammonì di «non fare commercio della sua memoria». Vennero stampate 20 mila copie di un volume di 642 pagine che - in ordine d’importanza - riprodusse articoli, necrologi, trafiletti e comunicazioni di condoglianze. Un altro volume (13 mila esemplari) raccolse 494 fotografie che occuparono 520 pagine. E poi: ritratti, riproduzioni, busti in metallo e in sasso che - come «santini» - diventarono oggetti di culto.

Nemmeno gli storici lesinarono in compiacenza e firmarono biografie sforzandosi di dimostrare che - quasi-quasi - Lenin era marxista ancor prima di nascere. In compenso, nascosero che un nonno era ebreo e che le sue ascendenze stavano nel contesto (criticabile) della borghesia. Per parte maschile, certo, poteva annoverare un servo liberato (il bisnonno) e un sarto di Astrakan (il nonno) ma il padre - Ilija Nikolaevic - era già ispettore scolastico. Peggio, secondo il credo comunista, il versante della madre, figlia e nipote di una schiera di medici ed erede di un patrimonio cospicuo. Lui, i caratteri del dittatore li mostrò fin da piccolo: scontroso ma persuasivo, austero, poco propenso all’ironia e per niente disponibile a scherzarci sopra. La sua scintilla rivoluzionaria maturò quando - 8 maggio 1887 - arrestarono il fratello «Sascia» Aleksandr che aveva attentato allo Zar. Lo impiccarono nei giorni in cui lui superò gli esami di maturità. Poi frequentò giurisprudenza ma dovette rendersi conto che non era quella la sua vocazione.

Vladimir cedette il passo a «Lenin». La scelta rivoluzionaria fu consapevole. Fin da subito, immaginò un’organizzazione politica che rappresentasse il punto d’incontro fra operai e contadini. Insieme, avrebbero dovuto annientare lo Zar e i «nemici del popolo». Non pensava a un partito quanto, piuttosto, al vertice di un partito. E non badava al numero degli affiliati. Più della quantità, era attento alla qualità dei collaboratori. Li voleva compatti, disciplinati, senza distrazioni e senza scrupoli: professionisti della rivoluzione. Gli inizi registrarono solo sconfitte e lui finì in carcere da dove continuò a mantenere i contatti con il pezzo d’organizzazione che l’aveva fatta franca. Scriveva lettere con comunicazioni del tutto innocue ma, fra le righe, utilizzando il latte, dava disposizioni per come continuare la lotta. Una volta libero, comprese che, in Russia, non aveva spazio per muoversi. Si spostò all’estero vivendo fra Londra, Bruxelles e, soprattutto, Ginevra. Lì diede vita alla «scintilla» - Iskra - il giornale che si affermò come l’unica autorità rivoluzionaria accessibile. Lenin ne era l’animatore, non accettava critiche e pretendeva obbedienza. Frequentò Capri dove viveva il tempo del relax giocando a scacchi con il barbiere dell’isola Adolfo Sciano al quale (fino al 1918) mandò cartoline di saluti.

Al congresso del partito socialdemocratico - 1903 - capeggiò la fazione degli intransigenti. Si diedero battaglia l’anima moderata che credeva nelle riforme a piccoli passi e quella dei rivoluzionari, inclini alla violenza e disposti a utilizzare il proletariato come massa di manovra. Lenin s’impose. La Russia ribolliva di rabbia. A Odessa, si ammutinarono i marinai della celebre corazzata Potëmkim. Operai e contadini scesero in piazza, bloccarono le città con barricate ma la rete organizzativa era ancora fragile e fu costretta a soccombere alle cariche della polizia. Lenin, che era rientrato in patria clandestinamente, fu costretto a fuggire attraverso la Finlandia. Occorreva ricominciare daccapo, L’anno della svolta fu il 1917. Gli operai di Pietrogrado scesero in sciopero. Si unirono le donne del quartiere di Vyborg e gruppi di disoccupati ingrossarono le fila della rivolta. Inizialmente, la polizia li affrontò sparando. Poi, i reparti dell’esercito disobbedirono agli ordini e si ammutinarono. Lo zar Nicola abdicò e si formò un governo che comprendeva liberali, democratici e progressisti guidato (prima) dal principe Georgij Evgen’evic L’vov e (poi) da Aleksandr Fëdorovic Kerenskij. Troppo «capitalisti», l’uno e l’altro, per essere accettati dagli operai che dettero vita ai loro Soviet. E, tuttavia, per l’assalto decisivo, occorreva un capo: Lenin. Che doveva attraversare l’Europa dilaniata dalla Prima guerra mondiale. Progettarono di farlo passare dalla Scandinavia con documenti falsi e, poiché non comprendeva una parola di finlandese, avrebbe dovuto fingersi sordomuto. Troppo complicato. Ripiegarono su un viaggio in aereo ma non riuscirono ad assumere un pilota. E, alla fine, accettarono l’aiuto della Germania che mise a disposizione un vagone blindato. In Russia, arrivò il 16 aprile 1917. Inizialmente, si trovò isolato e, anzi, fu costretto a ritornare nella clandestinità, a tagliarsi il pizzetto troppo riconoscibile e a camuffarsi. Ma presto poté fare a meno della parrucca per annunciare la vittoria. Con la storia che prese un’altra piega.





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