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Le ragioni della crisi tra Iran e Arabia

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Da una parte il super-attivismo bellico degli sciiti di Teheran e dei loro sostenitori (in Siria, Libano, Yemen...), dall’altra la volontà di potenza sull’intera area della sunnita Riyad. Nel mezzo, Israele e Mar Rosso (ma anche il resto del mondo). Sono in bilico i rapporti tra i due Paesi islamici, che stanno ampliando i loro arsenali, divisi da fede e strategie.

Giunti al vertice della tensione in Medio Oriente, adesso a rischiare tutto non è più soltanto lo Stato di Israele, ma anche l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman (Mbs), che vede messo per la prima volta seriamente a rischio il suo progetto Vision 2030 con cui intenderebbe traghettare il popolo saudita nel nuovo Millennio. Già, perché le milizie Houthi che tanto spaventano Washington - e che dallo Yemen minacciano l’Occidente impedendo la libera circolazione del commercio globale nel Mar Rosso a suon di missili contro le navi mercantili - sono armate dall’Iran proprio in funzione anti-saudita. In quel lembo di terra che si chiama Penisola Araba, per Riad gli inquilini più scomodi sono proprio loro: gli sciiti ribelli che non accettano più il governo imposto dai custodi dell’Islam sunnita, e che dal 2014 - ben dieci anni - alimentano lo scontro indiretto tra Iran e Arabia Saudita per il controllo del Medio Oriente.

Nonostante tregue e periodici cessate il fuoco, la «guerra per procura » tra le due potenze regionali va avanti. Così lo Yemen è oggi diviso in un nord filo-saudita e un sud filo-iraniano. Dopo l’inizio delle ostilità tra Israele e Hamas, esplosa anche a causa di Teheran (che protegge e finanzia questi ultimi), si è subito parlato di un colpo inferto dagli ayatollah a Re Salman, l’attuale sovrano saudita, per impedirgli di siglare quegli Accordi di Abramo che riconoscerebbero Israele come parte integrante della comunità mediorientale. «Questo matrimonio non s’ha da fare», secondo la Guida suprema Ali Khamenei. E tanti guai seguiranno per chi vorrà includere Gerusalemme nella geopolitica regionale. A cominciare proprio da Riad. Che, non sapendo più come uscire dall’impasse, nel dubbio compra armi. Tante armi, in attesa di un possibile scontro diretto o di un coinvolgimento più massiccio nel conflitto yemenita.

Secondo il rapporto 2022 dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), l’Arabia Saudita ha speso 75,01 miliardi di dollari per la difesa nel 2022, in aumento del 16 per cento rispetto al 2021. Di questi, 49,59 miliardi sono stati spesi per l’acquisto di armi, un aumento del 17 per cento rispetto al 2021. I principali fornitori di cui si è servita sono: gli Stati Uniti (35,4 miliardi di dollari), la Francia (8,1 miliardi di dollari) e il Regno Unito (7,2 miliardi di dollari). Il 10 gennaio 2023 anche il governo tedesco ha confermato il via libera alla vendita di missili all’Arabia Saudita, revocando un embargo sulle esportazioni a Riad che durava da anni. Ma la nota più sorprendente riguarda gli armamenti made in China, acquistati dai sauditi per un valore di oltre quattro miliardi di dollari nell’ultimo biennio, tra cui figurano 300 droni CH-4, missili balistici antinave YJ-21, e sistemi anti-droni Silent Hunter. Il che chiarisce anche che tipo di minaccia si aspetta Riad: una proveniente dallo Yemen. L’industria bellica cinese non aveva mai ricevuto una commessa così ricca dagli arabi: 2,1 miliardi di dollari solo nel 2022. Una cifra che vale un aumento del 150 per cento rispetto al 2021, quando la Cina ha venduto all’Arabia Saudita armi per un valore di 800 milioni di dollari, inaugurando il primo grande accordo di armi tra i due Paesi. Allora, le commesse includevano: sistemi di difesa aerea a corto raggio HQ-17AE, droni Sky Saker FX80, droni CR500 e droni kamikaze Dragon 5 e 10.

L’intesa ha così rafforzato la posizione di Pechino come fornitore bellico emergente nel Medio Oriente, mentre sono in corso ulteriori trattative per la vendita di caccia multiruolo Chengdu J-10C e di sistemi di difesa aerea a lungo raggio HQ-9B. Anche l’Italia, nel suo piccolo, è un importante fornitore di armi all’Arabia Saudita. Nel 2021, ne abbiamo esportate per un valore di 47 milioni di euro, mentre nel 2022 ha venduto al regno saudita sistemi di difesa per un valore di 123 milioni. Anche in questo caso, un aumento del 150 per cento rispetto al 2021. Nel 2023, infine, Roma ha autorizzato l’esportazione di ulteriori armamenti verso Riad per un valore di 150 milioni di euro, cifra che potrebbe aumentare se verranno confermate le autorizzazioni già rilasciate. I tipi di armi che l’Italia ha esportato o autorizzato a esportare all’Arabia Saudita nel 2022 e nel 2023 non sono ancora stati resi pubblici. Tuttavia, è assai probabile che abbiano incluso bombe, missili e altri munizionamenti. Sono apparentemente lontani i tempi in cui Donald Trump si recò in visita a Riad e concluse con il principe erede al trono Mohammed bin Salman un accordo da 110 miliardi di dollari di forniture militari, in previsione di arrivare a 350 miliardi di dollari entro i successivi dieci anni, per schiacciare i ribelli Houthi nello Yemen una volta per tutte. Con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca e la «distensione» tra l’Arabia e l’Iran, che ha portato (via Pechino) al ripristino delle relazioni diplomatiche bilaterali, le cose sembravano mettersi bene per i due Paesi leader della regione. L’accordo firmato a Gedda dai rispettivi ministri degli esteri aveva rappresentato un passo storico nella de-escalation della tensione.

L’intesa prevedeva la riapertura delle ambasciate e la ripresa dei colloqui su una serie di questioni regionali, tra cui appunto la guerra civile nello Yemen e il programma nucleare iraniano. Ma oggi tutto è di nuovo cambiato: Israele è in guerra, il Libano potrebbe esserlo e lo Yemen è quello che raccontano le cronache di questi giorni; mentre Siria e Iraq vengono bombardate ora da Teheran, ora da Washington, ora da Gerusalemme, perché sono entrambe terra di nessuno e rifugio sicuro per tutti, terroristi compresi. Con il passare dei mesi, a partire dall’assassinio nel 2020 del generale Qassem Souleimani in Iraq - «l’uomo della guerra» di Teheran - a opera degli americani (a quanto pare), sono però riaffiorate le antiche ruggini tra sciiti e sunniti, cosicché le attività militari nello Yemen sono riprese, al punto che oggi rappresentano il principale macigno sulla strada della normalizzazione tra Arabia Saudita e Iran. Fino al 7 ottobre 2023, giorno degli attacchi di Hamas in Israele, i rapporti erano rimasti tutto sommato cordiali tra il principe Mohammed bin Salman e il presidente iraniano Ebrahim Raisi. Ma quell’azione terroristica ha riportato il clero sunnita alla realtà: gli sciiti iraniani non vogliono la pace. «Vedo la vostra slealtà per non averci informato preventivamente» ha rinfacciato Mbs agli iraniani, sia personalmente sia attraverso i suoi ministri e ambasciatori.

L’erede al trono saudita è preoccupato non solo per quanto accade a Gaza e per la stabilità della regione, ma anche e soprattutto per Vision 2030, in cui quale il Regno ha investito oltre mille miliardi di dollari allo scopo di trasformare l’Arabia Saudita in una moderna economia diversificata. Per avere successo, Vision 2030 non può prescindere dalla pace nell’area, ed ecco perché il principe visionario aveva puntato (e punta ancora) alla pacificazione con Israele e al suo riconoscimento definitivo. Di parere opposto gli iraniani, che vogliono la distruzione dello Stato ebraico e per questo hanno appaltato ai loro «proxy» - entità politico-militari come Hamas, Jihad islamica, Hezbollah e gli Houthi nel Mar Rosso - l’incendio del Medio Oriente. Nonostante il sostegno formale dell’Arabia alla causa palestinese, il 10 gennaio 2023 l’ambasciatore saudita nel Regno Unito, il principe Khalid bin Bandar Al Saud, ha fatto alcune importanti rivelazioni alla Bbc, riferendo che giusto poco prima degli attacchi di Hamas in terra israeliana, «un accordo di normalizzazione con Israele mediato dagli Stati Uniti era davvero vicino». Il tentativo si sarebbe poi riproposto pochi giorni fa, quando il segretario di Stato americano Anthony Blinken ha suggerito a Tel Aviv un accordo di normalizzazione con Riad in cambio di un «percorso» di nascita di uno Stato palestinese. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe rifiutato dichiarandosi «impreparato», provocando così un commento da parte di Blinken (confermato da fonti americane al Times of Israel): l’indisponibilità di Netanyahu porterà la storia a ripetersi. Forse, è proprio questo tema la ragione per cui oggi il Medio Oriente brucia, di certo è il motivo per cui l’Arabia si riarma: all’orizzonte si prepara una guerra, che potrebbe coinvolgere praticamente tutti i protagonisti del Medio Oriente, scompaginando i piani della casa reale saudita e stravolgendo il volto della regione.





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