La banca di affari sporchi del Dragone
Un’attività che, per anni, ha convogliato decine di milioni di euro dal Bresciano alla Cina, riciclando denaro frutto di evasione fiscale e traffici della malavita non soltanto cinese. E all’«istituto», per trasferire ingenti somme in nero, si rivolgevano anche molti imprenditori...
Qualcuno avrà poco da festeggiare il prossimo Capodanno cinese, il 10 febbraio. E i dragoni di cartapesta che corrono lungo le strade delle Chinatown italiane dovrà immaginarseli nelle lunghe ore di branda. In cella. È da qualche mese che la Procura di Brescia e il locale comando provinciale della Guardia di finanza si sono addentrati in un terreno fino ad oggi inesplorato che vede, per dirla con le parole di un investigatore, «un Paese straniero offrire un servizio finanziario alle mafie italiane». L’indagine è aperta, e la presenza della criminalità organizzata non è (ancora) emersa in tutta l’evidenza, ma solo uno sprovveduto non riuscirebbe a indovinarne la sagoma che si staglia all’orizzonte. I finanzieri hanno scoperto infatti nel Bresciano una «banca cinese abusiva» che, al ritmo di 300 mila euro al giorno, ha drenato decine di milioni di euro all’anno per trasferirli nella madrepatria. Una emorragia di contanti che inquieta per i danni economici che può provocare. Secondo le stime di Bankitalia, le rimesse ufficiali dal nostro Paese a quello della Repubblica popolare sono passate dai cinque miliardi del 2017 ai nove milioni appena del 2021. Più di quattro miliardi di euro sono quindi spariti dai radar dell’antiriciclaggio per finire chissà dove. «Un flusso di sola uscita» spiega ancora un inquirente, «che scompensa il nostro tessuto economico-finanziario a vantaggio di un competitor particolarmente aggressivo sui mercati internazionali».
Il lavoro investigativo delle Fiamme gialle, che si è sviluppato attraverso mesi di pedinamenti e attività di controllo del territorio, ha consentito di ricostruire organizzazione, dinamica e meccanismi di funzionamento dell’istituto di credito illegale. La fase di raccolta era curata alla vecchia maniera. Gli «spalloni» raccoglievano il contante tra i connazionali, non solo in Lombardia ma anche in province limitrofe, e lo portavano appunto nella «filiale» di Brescia dove i «ragionieri» si preoccupavano poi di smistarlo o di reinvestirlo. I sistemi di trasferimento erano essenzialmente due. Quello dei software crittografati, che fanno viaggiare i soldi nelle pieghe dello spazio web, rendendone quasi impossibile il tracciamento; e il fei chen. Si tratta di un modello simile all’hawala islamico che consente di movimentare piccoli e grandi patrimoni, da una parte all’altra del pianeta, su base fiduciaria. Semplicemente attraverso il passaparola e una lettera di accredito. Una specie di Via della Seta finanziaria. L’inchiesta bresciana vede per adesso indagate 21 persone e 10 società. Due donne e un uomo sono stati arrestati in flagranza mentre nascondevano in borse e zainetti banconote per oltre 600 mila euro. Nella trentina di perquisizioni effettuate dai militari con i cash-dog, i cani che fiutano l’odore dei soldi, sono stati sequestrati oltre 1,2 milioni e sei Rolex d’oro e altri oggetti preziosi. Compreso un bouquet che sfoggiava banconote da 20 euro «in forma di rosa». Un omaggio floreale che non è stato consegnato alla destinataria perché finita, nel frattempo, in manette. Le provviste finanziarie della banca derivano tanto da reati tributari (evasione e «frodi carosello» per evitare l’Iva) quanto da reati di diversa natura, come il traffico di droga. Uno degli «investitori» della banca è stato individuato infatti in un pregiudicato di Prato con precedenti per spaccio di stupefacenti. Anche lui aveva affidato ai broker cinesi un bel gruzzolo per farlo sparire presumibilmente all’estero. Ed è chiaro che un servizio di tale delicatezza non si improvvisa, tanto meno si può ipotizzare che sia esercitato senza l’occhio vigile e interessato della malavita.
Ma è scavando nel flusso di cassa della «banca» che la Fiamme gialle sono riuscite a comprendere il lato oscuro delle transazioni finanziarie gestite dalla struttura bresciana, che non riguarda solo i trasferimenti in Cina dei soldi evasi. Alla filiale lombarda si rivolgevano anche tantissimi imprenditori italiani che, non potendo accedere al circuito del credito ufficiale, ottenevano liquidità immediata e «invisibile» per monetizzare le fatture false usate per truccare i bilanci e frodare il fisco. «In questo modo» suggerisce un investigatore «il cerchio dell’economia illegale si chiude. I capitali illeciti accumulati vengono “lavati” nel mercato delle frodi carosello per poi spuntare, come un fiume carsico, al di là delle Alpi, nella “pancia” di qualche compiacente società straniera». In questo modo gli imprenditori abbattevano i costi e risparmiavano sulle tasse, i criminali piazzavano ingenti quantità di contanti che sarebbe stato rischioso detenere e ancor più far circolare e, infine, la «banca» realizzava un doppio guadagno su commissione: sia dalla gestione dei money transfer verso Pechino sia dal reimpiego delle risorse illecite nel grande affare delle fatture false. Una goccia (cinese) nel grande mare dell’economia sommersa.