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Февраль
2024

Casalesi, i boss tornano a casa

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Dal 2020 sono stati circa 250 i criminali appartenenti al temibile clan camorrista a lasciare i penitenziari dov’erano rinchiusi. Sono a piede libero e, da quanto risulta a Panorama, si stanno riorganizzando secondo nuove modalità. Ma con gli stessi fini.

I Casalesi sono tornati. Come le malepiante che infestano i giardini. Come le scorie tossiche dopo una fallita bonifica. Il clan di camorra campano, in silenzio, si sta riorganizzando. E ripopolando. Dal 2020, secondo dati riservati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono stati scarcerati circa 250 affiliati per fine pena. Sono capi e gregari arrestati e condannati per droga, racket e associazione mafiosa tra il 2008 e il 2010, quando l’allora governo Berlusconi varò un piano straordinario di contrasto alla criminalità organizzata noto come «Modello Caserta», che vide collaborare servizi segreti, magistratura, esercito e forze dell’ordine. «Sono tutti presenti sul territorio per riprendere a fare quel che da una vita fanno: delinquere» spiega a Panorama un investigatore. Tranne i grandi padrini (Francesco Schiavone, Francesco Bidognetti e Michele Zagaria) e gli assassini dell’organizzazione, confinati all’ergastolo in regime di massima sicurezza, si può dire che la cosca «si sia riassestata».

Una direzione già fotografata da una recente inchiesta dell’Antimafia di Napoli che nei mesi scorsi ha portato 30 malavitosi alla sbarra per il tentativo di resuscitare i vecchi accordi criminali. A dirigere le operazioni era un figlio d’arte, Gianluca Bidognetti, erede del boss Francesco, soprannominato Cicciotto ’e mezzanotte: dal carcere di Terni impartiva direttive grazie a un telefono cellulare che qualche mano lesta gli aveva allungato in cella. «I Casalesi degli anni Novanta non esistono più» continua l’investigatore «ma centinaia di camorristi in libertà rappresentano certamente un problema. Soprattutto perché hanno compreso che copiare la strategia terroristica dei Corleonesi di Totò Riina è controproducente». Dunque: i Casalesi ci sono, ma non si vedono. Al più si possono contare. Dal 2010 ad oggi sono oltre 1.450 i criminali appartenenti al sodalizio che hanno lasciato le patrie galere, secondo i dati del Dap. «Questo significa che, oltre alla struttura economico-finanziaria del clan, si sono rivitalizzati pure i bracci operativi». Quelli, in pratica, che commettono i fatti di sangue. Appena poche settimane fa sono stati sequestrati 55 milioni di euro a un imprenditore vicino alla banda che aveva monopolizzato, con le sue quattro società, il mercato delle bonifiche ambientali e dei rifiuti in tutta la provincia. «Ciò significa che la forza intimidatoria e le collusioni funzionano perfettamente. Ancor di più in ambienti insospettabili». Come ha confermato l’indagine sulle presunte infiltrazioni nel gruppo Rfi per accaparrarsi appalti delle Ferrovie dello Stato. A processo oggi ci sono 59 imputati tra colletti bianchi ed ex funzionari della holding dei trasporti. «Ha usato il lievito madre» degli Schiavone, dice in una intercettazione Giuseppina Nappa, moglie del boss Sandokan, per indicare l’ascesa repentina di un loro uomo diventato, nel giro di pochi anni, ricchissimo.

I soldi da soli, tuttavia, non bastano. Come dice Al Capone nel film Gli intoccabili, si ottiene di più con una pistola e una parola gentile che solo con una parola gentile. Per questo, il sequestro di un arsenale all’interno di un’azienda bufalina di Castel Volturno, un anno fa, ha allarmato gli inquirenti. Sebbene gli omicidi siano ormai merce abbastanza rara a queste latitudini, il potenziale offensivo della cosca resta micidiale. Nascosti in bidoni interrati, i killer del gruppo Schiavone avevano a disposizione sette mitragliatori, due fucili, una carabina di precisione, una pistola con silenziatore e 300 munizioni. E, crescendo di numero gli affiliati, aumenta pure l’arroganza dei camorristi. Uno degli «ufficiali» della cosca, Salvatore De Santis, tempo fa lanciò un inquietante avvertimento al pm Cesare Sirignano alla presenza dei carabinieri di scorta. «Dottor Sirignano, vi ho riconosciuto» gli urlò l’uomo che il magistrato aveva fatto condannare a oltre 12 anni di carcere per mafia e racket. «Vi volevo salutare». E sgommò via a bordo del suo Suv.

Sirignano è anche il pubblico ministero che ha gestito il pentimento dell’ex superlatitante Antonio Iovine e che, soprattutto, ha messo in trappola il sicario più pericoloso della camorra casertana, il brutale Giuseppe Setola. Oltre ad aver coordinato alcune delle più importanti inchieste che, proprio nel periodo del «Modello Caserta», disarticolarono l’organizzazione. Sei mesi dopo quell’episodio, però, incredibilmente a Sirignano è stata revocata la scorta. E oggi è possibile incrociarlo, ad Aversa, mentre guida la sua vettura, da solo e senza alcuna protezione. Divorato con lo sguardo dai brutti ceffi che si radunano, in occasione delle udienze, davanti al Tribunale. E che non hanno dimenticato.





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