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Март
2024

La guerra del grano

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È un’arma fondamentale nel confronto tra Russia e Occidente. Insieme con l’Ucraina, Mosca riempie i nostri depositi e, in questo caso, non c’è sanzione che tenga. L’effetto, parallelamente all’export energetico, è una vitalità della produzione agricola e un’incredibile resistenza della struttura industriale. L’Unione europea è avvisata.

Madame Christine Lagarde non se ne cura, lei non fa la spesa. Eppure da vegetariana, salutista (non beve neppure champagne) dovrebbe sapere che il pane è indispensabile e il suo prezzo è un indicatore essenziale. Le basterebbe rileggere le pagine immortali che Alessandro Manzoni dedica ai tumulti di San Martino per saperlo. Ai piani alti della Bce però l’inflazione si doma con i tassi, non con le messi. Anche Josep Borrell - l’alto commissario per la Politica estera, si fa per dire, dell’Unione europea - non dà peso al grano: lui si preoccupa delle bombe a grappolo o dei missili che l’Europa non ha e non avrà mai per combattere Vladimir Putin. Eppure Sergej Lavrov, il ministro degli esteri russo che raramente parla a caso e mai senza aver preso lezioni al Cremlino, quando non ha rinnovato la «Black Sea Grain Initiative» lo aveva fatto capire che un’arma impropria poteva essere la farina. Neppure all’ultimo G-7, quello che il nostro presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha tenuto a Kiev, si è pensato ai campi, se non a quelli di battaglia con Volodymyr Zelensky che continua a chiedere munizioni. Eppure Sandro Pertini - il più amato fra i nostri presidenti della Repubblica - in piena guerra fredda, e anche allora c’era di mezzo l’Urss che non è cosa molto diversa dalla Russia di Putin, implorò: «Svuotate gli arsenali, riempite i granai».

Ursula von der Leyen per far vedere che l’Europa c’è, ha varato d’accordo con i «27» il tredicesimo pacchetto di sanzioni alla Russia con cautissima estensione ad alcune aziende cinesi. Efficace? L’agenzia Nova - che conosce bene le cose di Mosca - nelle stesse ore scriveva la nota per cui «a gennaio del 2024 il surplus del commercio estero in Russia ammontava a 9,7 miliardi di dollari su base annua». Él’vira Nabiullina, che guida la banca di Russia - a proposito, chi aveva scommesso che siccome disobbediva Putin l’avrebbe fatta fuori forse non ci ha visto giusto - si gode il rublo ai massimi, un Pil previsto in crescita del 3 per cento e un surplus della bilancia dei pagamenti del mese scorso pari a 6,4 miliardi di dollari, un miliardo in più rispetto al 2023. Dicono: è economia di guerra, non dura. Guardando al grano sembra guerra d’economia, ma nessuno ci fa caso.

Nel frattempo la baronessa Von der Leyen deve fronteggiare una protesta degli agricoltori che non si arresta - appena la settimana scorsa Bruxelles è stata messa di nuovo in stato d’assedio da 900 trattori - perché sono esasperati. Come scrive Felice Adinolfi,esperto di politiche agricole, in un rapporto riservato intitolato Mari in tempesta che il centro studi Divulga ha dedicato all’effetto sui campi dei due anni di conflitto: «L’aumento vertiginoso dei costi di produzione, degli energetici e le forti oscillazioni dei prezzi sono in molti casi state scaricate sulle imprese agricole anche a causa di fenomeni di non lineare trasmissione dei prezzi lungo la filiera».

Che i trattori si muovano come carri armati all’assedio di Bruxelles è il minimo. Che cosa accomuna la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde, Ursula von der Leyen, il G-7 e Segej Lavrov? Questi numeri che sono riferiti all’Italia, ma calzano a tutta Europa: «Il prezzo del pane cresce di circa 14 volte rispetto al prezzo riconosciuto agli agricoltori per il frumento tenero necessario per la panificazione. Stesso discorso per la filiera della pasta dove il valore dal campo alla tavola aumenta di ben cinque volte. Nel caso della carne bovina il prezzo dagli allevamenti allo scaffale sale di ben otto volte, quattro per la carne suina. Questa distanza appare considerevole anche per il latte con 0,50 euro al litro corrisposto in media alla produzione rispetto a oltre 1,60 euro/litro pagato mediamente dal consumatore». Se gli italiani che fanno la spesa - e che la Lagarde difende dall’inflazione strozzandoli con i tassi d’interesse - e gli italiani che coltivano sono stanchi di guerra, forse una ragione c’è. Ed è tutta questione di grano. A noi il grano duro ed è proprio quello che ci vende la Russia, serve soprattutto per fare la pasta. Ne produciamo 3,7 milioni di tonnellate, oltre due milioni le spediamo all’estero. Ma ci manca la materia prima.

Ne compriamo al di fuori dei confini della Ue 1,2 milioni di tonnellate. Prima ce lo vendeva il Canada, ora lo compriamo dalla Turchia (guarda caso Recep Tayyip Erdogan era il promotore degli accordi del Mar Nero per far passare la merce ucraina ed è stato felicissimo del fallimento dell’intesa) al 37 per cento e al 31 per cento dalla Russia. Che ha incrementato le sue esportazioni verso l’Italia del 1.164 per cento avendoci spedito 400 mila tonnellate di spighe. È la spia che la Russia sta guadagnando dalla guerra di Ucraina e che il mercato mondiale dei cereali - da cui dipendono tutti gli altri mercati - è in piena rivoluzione. A guidarla c’è la Cina che è diventato il primo produttore ed ha il 60 per cento delle riserve del pianeta. Ma Mosca si è ritagliata un posto al sole: è il terzo produttore mondiale (seconda è l’India, che però consuma tutto in casa sua) ed ha approfittato del vuoto lasciato dall’Ucraina per fare dumping. Perché il primo risultato che si è avuto dall’invasione del grano russo in Italia (siamo il primo produttore europeo di duro) è questo: «Nel gennaio 2024 le quotazioni registrano un calo di oltre 70 euro a tonnellata rispetto allo stesso periodo dello scorso anno» scrive Divulga. «Se consideriamo le quotazioni registrate nel mese di giugno 2022 pari a 577 euro/tonnellata i prezzi del frumento duro nazionale hanno subito un calo di circa 190 euro a tonnellata, pari a oltre il 33 per cento».

È la guerra di Putin? Può darsi. Il grano non è stato sottoposto a sanzioni perché l’Europa non voleva gravare sui Paesi poveri, temendo un rialzo dei prezzi. Chi sta pagando sono invece i nostri ceralicoltori. La Cia (una delle nostre centrali agricole) ha raccolto 70 mila firme in calce a una petizione per denunciare, come dice il segretario Cristiano Fini, che «con le ultime quotazioni sul grano duro pari a circa 37 euro al quintale e le rese di circa 30 quintali a ettaro, si arriva a una produzione lorda vendibile di 1.100 euro a ettaro, ma con costi di produzione di gran lunga superiori ai 1.400 euro». Morale si sono persi quest’anno 130 mila ettari, la nostra produzione è in calo vertiginoso. Ma niente paura: ci pensa Putin perché già l’anno scorso le importazioni si sono impennate all’avvio della trebbiatura e quest’anno le previsioni sono che «per la prima volta il Canada, di gran lunga primo fornitore di Ue e Italia negli ultimi anni, potrebbe cedere il passo a Turchia e Russia».

Il fatto è che in Europa la leadership del grano l’avevamo in tre: per il duro l’Italia, per il frumento Francia e Germania. Ma quello d’importazione costa un terzo meno. Per capire la marcia di protesta dei trattori basta seguire il grano. Non solo quello russo, ma anche quello ucraino che non c’è. Kiev ha perso il 30 per cento della sua produzione scendendo sotto 23 milioni di tonnellate (la Russia ne fa 90 milioni) eppure ci vende tantissimi cereali grazie alle corsie di solidarietà inventate dall’Ue per soccorre la popolazione rurale ucraina a cui sono già stati destinati 380 milioni di euro di aiuti monetari e altri 150 milioni - la stima è della Fao – sono pronti per essere erogati. Da Kiev ci sono arrivati nei due anni di conflitto 112 milioni di tonnellate di merci - la stima è sempre di Divulga - e noi abbiamo spedito in Ucraina 40 milioni di tonnellate soprattutto di aiuti militari, per uno scambio pari a 11,2 miliardi di euro. Per gli agricoltori europei ha significato un crollo dei prezzi, ma solo all’origine, di burro, pollame, di tutti i cereali, del latte. Pare di capire che ci siamo portati la guerra agricola in casa, un conflitto che si combatte a colpi di grano. Nell’ipocrisia delle sanzioni visto che Mosca ci ha spedito nei primi dieci mesi dello scorso anno 617 mila tonnellate tra grano duro e olio di girasole con un aumento del 9 per cento. Ma non di sola pasta vive l’uomo; così andando a leggere un po’ di numeri dell’Osservatorio sui mercati esteri del nostro governo emerge che nei primi dieci mesi dello scorso anno abbiamo venduto a Mosca prodotti per 4,3 miliardi di euro (soprattutto abbigliamento, scarpe, medicine, macchinari). Abbiamo importato per 3,8 miliardi al netto del crollo degli energetici (meno 85 per cento) anche se la Russia ci vende ancora il 4,5 per cento del gas. Se è economia di guerra difficile dire chi stia vincendo.





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