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Panorama
Март
2024

La scultura nella fotografia

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È un’immagine inaspettata e originale quella con cui l’obiettivo di Luigi Spina ritrae le opere del Canova nella Gypsoteca di Possagno. In quei gessi - celebri per la bellezza e un rigore che a volte può apparire distaccato - gli scatti contemporanei esaltano espressioni e tensioni. E danno una vera, inedita interpretazione critica.

Luigi Spina è arrivato al compimento della sua impresa: fotografare in quattro tempi, e pubblicare in quattro libri, le sculture di Canova nella Gypsoteca di Possagno. Il suo obiettivo non è un catalogo e neppure una serie di rigorose e fedeli immagini, con una luce artificiale identica, per restituire la integrità dell’opera e dello sguardo di Canova, ma, nelle diverse luci del giorno e nella fisicità del luogo, sentirne il respiro e la vita. Spina coglie questa umana dolcezza che è nelle attitudini dei corpi, sorpresi come se non si aspettassero di essere visti da uno sguardo complice e desiderante, compiaciuto e attratto, e offre lo strumento per consentire alla critica di misurarsi con Canova con occhi nuovi. Gli dobbiamo gratitudine. La fotografia, come la critica, è interpretazione.

La critica del nostro tempo cerca in Canova un artista nuovo e lontano dai modelli antichi, maestro di un’idea della bellezza senza tempo e senza limite, un artista dell’armonia, della misura perfetta e di un mondo perduto. Guardare Canova per i moderni è come rispondere agli interrogativi di John Keats nell’Ode su un’urna greca: «Quale leggenda vive, ornata di foglie, nelle tue forme / di divinità e mortali, o entrambi, / a Tempe o nelle vallette d’Arcadia? / Che uomini e che dei sono questi? Quali fanciulle ritrose? / Quale folle ricerca? Quale tentativo di fuga? / Quali flauti e tamburi? Quale estasi selvaggia? / Le melodie udite son dolci, ma quelle che non si sentono / lo sono ancora di più; quindi, dolci flauti, / continuate a suonare, non per il l’udito, ma, ancora più caro, / suonate per lo spirito canzoni senza suono: / bel giovane, sotto gli alberi, non puoi cessare / la tua canzone, né mai saranno spogli quegli alberi; / amante audace, non potrai mai, mai baciarla / anche se sei così prossimo al tuo obiettivo - eppure, non temere; / lei non può scomparire, anche se non raggiungi la tua gioia, / tu amerai per sempre, e lei sarà per sempre bella. / Ah felici, felici rami! Che non potete perdere / le foglie, e non direte mai addio alla primavera; / e, felice suonatore, mai stanco, / che intonerai per sempre musiche sempre nuove; / ancor più felice amore! Più felice, felice amore! / Per sempre caldo e ancora da godere, / per sempre ansimante, e per sempre giovane; / siete superiori a ogni viva passione umana, / che lascia il cuore afflitto e nauseato, / la fronte in fiamme, e la lingua arida. / E chi sono costoro che vanno al sacrificio? / A quale verde altare, oh sacerdote misterioso, / conduci quella giovenca che muggisce al cielo, / coi lisci fianchi adornati di ghirlande? / Quale piccolo paese sul fiume, o sul mare, / o quale pacifica cittadella inerpicata sui monti / si è svuotata dei suoi abitanti in questo sacro mattino? / Piccolo villaggio, le tue strade saranno per sempre / silenziose; e nessuno potrà mai tornare / a dire perché tu sei disabitato».

Ecco: i nostri occhi esprimono le domande incalzanti dei versi di Keats e scaldano la materia in cui le idee su calano. Ne esce alla fine un Canova non scultore dell’ideale, ma di vive, reali emozioni. D’altra parte il sogno del fratello di trasportare Roma nel Veneto con il tempio di Possagno, che fu voluto e iniziato da Canova, richiama una delle personalità più vicine a Canova, che è quella di Palladio. Palladio fece un percorso analogo e portò poi il mondo classico in ville e palazzi, in una dimensione che unisce Roma e il Veneto. L’altro artista necessario per capire Canova è Raffaello. A Roma l’artista di Urbino indica la sua visione del mondo occidentale, in cui tutto ha un ordine, una misura, una dimensione universale. Quel centro che, nella lettera a Leone X, Raffaello indica al Papa come un patrimonio morale oltre che materiale da salvare, non inteso dai contemporanei. Quello stesso sogno di Roma è il sogno di Canova.

Forte è la connessione fra i due grandi artisti celebrati a un anno di distanza, essendo morti l’uno nel 1520, l’altro nel 1822, in un percorso ideale che li unisce e indica per noi lo stesso obiettivo di ordine, di misura, di civiltà, di buon governo anche. E il buon governo che indicava a Leone X Raffaello è lo stesso per cui Canova, inviato da Pio VII ha un ruolo essenziale, riportando in Italia le opere trasferite a Parigi da Napoleone. Stefano Grandesso ha ricordato Canova nel suo studio di Roma: «Selva rimane costantemente aggiornato da Canova sulle nuove invenzioni, documentate dall’invio di disegni, incisioni, modelli in gesso che l’architetto si occupa di far avere agli interlocutori privati e pubblici, come l’Accademia. Nella fitta corrispondenza tra i due, si dichiara fiero del suo piccolo museo canoviano: «voi sapete che il mio studio è famoso per le vostre opere che l’adornano». Il carteggio documenta poi la perplessità dello scultore sulla forma e la funzione del nuovo progetto: «È vero che in luogo di uno studio da privato potria dirsi una galleria, uno stabilimento per la gioventù», scrive Canova il 2 dicembre 1809, sottolineandone la natura addirittura triplice, di officina, museo e luogo di istruzione per i giovani.

Ma a ben vedere lo studio reale di Canova, quello romano, che l’artista non abbandona nemmeno per i nuovi spazi promessigli da Pio VII a piazza del Popolo, assolve a tutte queste funzioni. Ne coglie l’unicità rispetto agli altri studi lo scrittore e teorico tedesco Karl Ludwig Fernow, seguace di Winckelmann e interprete dell’estetica kantiana: «Nell’atelier di Canova, che comprende una serie di ampie sale di studio, si trova quasi tutto ciò che attualmente a Roma è dato di vedere di scultura contemporanea: vi si trovano più opere in fase di lavorazione che negli studi di tutti gli altri scultori messi assieme. Sotto le mani degli scalpellini prendono forma opere sempre nuove. Alcune già compiute, altre ancora vicine al compimento, mentre al posto di quelle consegnate sono stati collocati dei gessi: in tal modo si può ripercorrere quasi tutta l’arte del Canova, dagli esordi fino al presente, un fatto che rende le visite al suo studio particolarmente interessanti e ricche di informazioni». Canova è il riferimento per tutti gli artisti che lavorano a Roma.

Come uno di loro si considera Luigi Spina che non fotografa ma interpreta la lezione del maestro, ricercandolo nel suo studio trasferito a Possagno, e ritrovandolo fra le sue statue: la ricerca dell’imperfezione che ha mosso la sua impresa in quattro anni di luci mattutine nella Gypsoteca fredda è la ricerca di un Canova che non c’è, che vive nel frammento, nel taglio imprevisto, nell’avvicinamento, nello zoom, nelle «repere» (i chiodini che permettevano di riprodurre il gesso in marmo) nelle sculture. Un Canova disturbato, spinoso, altro da sé, volta a volta in scultori di oggi come Arman, Paolini, Jago. Spina cerca l’equivoco, il «non classico», lo sproporzionato. E ci mostra quello che di lui non abbiamo visto, ma che c’è, che lui ha visto per noi. E soprattutto vuole fotografare lui, nascosto dietro e dentro le statue.

E il suo volto non è solo nell’ autoritratto, ovviamente; ma nella vibrazione della luce sull’epidermide di Venere, nel gesto di rabbia di Aiace, nell’abbraccio di Dedalo e Icaro, nella fragile e vana gloria di Ettore, nello sfinito abbandono di Venere al dominio della bellezza di Adone, nella rigida postura di Leopoldina Estherazy Lichtenstein. Ognuno di loro è parte di lui, un episodio della sua autobiografia fatta non di azioni, ma di confronti, di dialoghi. Spina cerca il suo sguardo. Fuori di quello studio, fuori di quella gabbia, Canova non c’è. Ed è inevitabile ritrovarlo dove è nato e dove è tornato. Non gli è consentito andarsene. Spina si è appostato per ben quattro anni. Ha visto tutto, ha ripreso tutto, ha aspettato la luce giusta, si è nascosto nel buio. Alla fine ci ha dato il suo ritratto di Canova. Era lì. Lo ha aspettato e lo ha trovato. Lì c’è. Lì vive. E io me ne sono andato.





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