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Апрель
2024

Conte e Schlein: marciare divisi per perdere uniti

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Per il voto alle Regioni a quello per i Comuni non riescono a scegliere lo stesso candidato. E peggio va per le Europee... Dopo il risultato dell’Abruzzo, Giuseppe Conte ed Elly Schlein non fanno in tempo ad avvicinarsi che già si scoprono inconciliabili. E pronti alla prossima batosta.

«Tanto l’aria s’adda cagnaaa...». Giuseppe Conte, pochette nel taschino e cravatta a pois, festeggia la vittoria alle regionali sarde strimpellando Pino Daniele. È il nostalgico grido di battaglia del subcomandante grillino. Sogna la riscossa, grazie alle fini strategie imbastite assieme alla generalessa piddina, Elly Schlein. Uniti come un solo uomo, per strappare l’Italia al centrodestra. Regioni e comuni, fino alla battaglia finale per Palazzo Chigi. È passata appena qualche settimana da quei trionfali propositi. L’esercito di Giuseppi&Elly sembra già la raffazzonata Armata Brancaleone di Monicelli. Dopo la sfortunata campagna d’Abruzzo, l’unica comunanza tra i due leader sembra l’irrefrenabile vaghezza: un po’ di qua, e un po’ di là. Politica estera, economia, riforme. Nessuna convergenza. Mentre la decisiva scelta di candidati comuni oscilla tra l’ostico e il fallimentare.

Insomma, a dispetto del ritornello canticchiato da Giuseppi, l’aria non è affatto cambiata. Prossime tornate, disfatte annunciate. In Basilicata, per accontentare i riottosi compagni pentastellati, il Pd ha nell’ordine: rinunciato al prescelto, mandato allo sbaraglio uno sconosciuto medico, virato infine sul sindaco di Montalbano Jonico e presidente della Provincia di Matera, Piero Marrese. Rispetto al Piemonte, dove si voterà a giugno assieme alle Europee, resta comunque un successone. Elly sognava di candidare, visti gli insuperabili trascorsi, la sabauda Chiara Gribaudo: sua ex coinquilina a Roma, già nominata vicepresidente del partito.

La svolta meritocratica è però fermata dall’egemonia di Chiara Appendino, ex sindaco di Torino, a sua volta vicepresidente dei Cinque stelle. Per evitare la sconfitta contro Alberto Cirio, governatore uscente, servirebbero nervi saldi e comunione d’intenti. Ma le due zarine non si prendono. Amen. Pure qui, i brancaleonici si preparano a un’altra Caporetto. Il Pd punta su Gianna Pentenero, assessora comunale alla sicurezza di Torino. Scelta diabolica: il governo, vista l’emergenza spaccio e violenza, ha dovuto militarizzare la città inviando l’esercito. Il Movimento, dunque, prende tempo. Niente accordi, però. E nessun rammarico. Anzi, la sceriffa Appendino si lucida la stella: «Bene così, siamo orgogliosamente diversi». Mentre il subcomandante Giuseppi sfuma: «Questo non significa che il Pd diventerà un nemico».

A giugno, comunque, si voterà anche per eleggere i sindaci di migliaia di comuni e una trentina di capoluoghi. Bari, ad esempio. Che rischia di venir commissariata per infiltrazioni mafiose. Il disinvolto governatore pugliese, Michele Emiliano, aggiunge il carico da undici: ricorda di aver chiesto protezione per l’attuale sindaco, Antonio Decaro, a una sorella del boss Capriati. «Non ho trovato l’aneddoto né divertente né edificante» precisa Conte. Decaro, aggiunge l’ex premier, fornisca ampia collaborazione agli ispettori ministeriali. Il pandemonio, del resto, potrebbe avvantaggiare il suo partito. Perché a Bari, vista la solita inconciliabilità, hanno organizzato le primarie. I Cinque stelle schierano l’avvocato Michele Laforgia, paladino della questione morale. I dem invece, Vito Leccese, pupillo proprio di Decaro.

Ancor più tormentati i destini dei giallorossi negli altri due decisivi capoluoghi al voto. A Firenze il Pd se ne impipa altamente della comunanza. Il sindaco, Dario Nardella, ha già indicato una fedelissima per la successione: Sara Funaro. Tra i filo grillini, si dimena invece Tomaso Montanari, rettore agit prop dell’università per stranieri di Siena e commentatore del Fatto Quotidiano. Ancora più tribolate le sorti a Bergamo. L’uscente Giorgio Gori vorrebbe correre alle Europee, come Decaro e Nardella d’altronde. Con la sua benedizione, alla guida del capoluogo lombardo è candidata un’ex deputata, Elena Carnevali. Anche lei designata in perfetta continuità con il passato, sbertucciando le velleità pentastellate: «Siamo stati invitati al tavolo della coalizione, ma poi non ci hanno fatto sedere» riferiscono i grillini. Stesso straziante epilogo a Cremona. Fuga in avanti dei dem, che schierano il vicesindaco, Andrea Virgilio. Mentre i Cinque stelle annunciano la corsa solitaria e promettendo «vera discontinuità».

Il Pd, nelle sue roccaforti, se ne frega delle alchimie romane. E pensare che Elly ha persino nominato due portatori di pace. Tendono ramoscelli d’ulivo a imbolsiti cacicchi e logori reazionari di mezza Italia, sperando che vengano a più miti consigli. Sono i sensali del campo largo, Igor Taruffi e Davide Baruffi, divisi da una consonante e dileggiati dai potentoni locali già per l’assonanza da cabaret. Non aiutano nemmeno i trascorsi a sinistrissima di Taruffi: lo scudiero di Elly, nominato responsabile dell’organizzazione, ha preso la tessera del Pd un anno fa.

Li chiamano gli «Uffi». Protagonisti assoluti della pantomima lucana, non sfigurano nemmeno altrove. Niente da fare allora nemmeno in quel di Verbania, Vercelli o Biella. A dispetto del marcato accento emiliano, faticano persino nella loro madrepatria, come a Cesena e Modena. Non fanno proseliti neppure a Rovigo, dove l’ex piddino Edoardo Gaffeo si ripresenta con i grillini. I dem non appoggiano nemmeno i rari uscenti pentastellati, come a Caltanissetta. Destini divisi e tribolati pure ad Avellino, che diede i natali a Giggino Di Maio, indimenticato predecessore di Giuseppi. Per non parlare della ruspante Livorno. Piuttosto che fraternizzare, i grillini si accordano con Potere al popolo. Nell’attesa del voto, seppelliscono il consiglio comunale con 200 emendamenti sulla cementificazione selvaggia e ripostano macabri pupazzetti che raffigurano il sindaco ricandidato, Luca Salvetti, con la testa rotta.

Altro che fratellanza tra i popoli. Questa benedetta alleanza, per restare nel Livornese, sembra l’ovo sodo di Virzì, che «non va né su e né giù». Il Movimento fatica ancora a digerirlo. Non solo i vecchi elettori grillini, ma anche illustri esponenti del vecchio corso, rimasti alla corte di Giuseppi. Vedi Appendino, appunto, che sabota perfidamente ogni trattativa in Piemonte. O l’ex senatrice Paoletta Taverna, vicepresidente vicario e responsabile degli enti locali del Movimento. Insomma, il contraltare dei malcapitati «Uffi». Loro «testardamente unitari», come comanda Elly. E lei che, per la prodigiosa ugola, veniva chiamata la «pescivendola» di Palazzo Madama.

Fino a qualche anno fa, Taverna considerava i quasi amici dei delinquenti matricolati: «Siete delle merde! Ve ne dovete andare! Dovete morire!». In seguito, certo, s’è contenuta: «Quando ti presenti col Pd, un po’ truffatore lo sei anche tu». Adesso, in pubblico, sembra una madama. Chi frequenta le segrete stanze, però, riferisce di vivaci impuntature con il placido duo emiliano: «Ahó, ma lo volete capì che a noi quello nun ce va bene!». Gli «Uffi» soprassiedono, per amor di patria. Provateci voi, del resto, a discutere con l’agguerrita Paoletta. Nonostante la messa in piega, gli occhialini rotondi e i completi pastello, resta pur sempre una convinta seguace del deposto fondatore. Quel Beppe Grillo che, per un abbondante decennio, ha dato fondo agli insulti: «Pdmenoelle», «pidioti», «partito preferito dalla camorra», «tutti collusi e complici», «gente sporca dentro».

Anche Conte, però, si prepara ad alzare i decibel in vista delle Europee. Inevitabile. A dispetto dei professati intenti, con Elly sarà battaglia. A partire dalle inconciliabili posizioni sulla guerra, vera e tremenda, in Ucraina. I Cinque stelle rivendicheranno assoluta contrarietà alle armi, per non venir scavalcati a sinistra. Il subcomandante di Volturara Appula vuole guidare la coalizione. I sondaggi lo confortano. Il Pd galleggia attorno al 20 per cento: in vivace decrescita rispetto alle scorse Europee. Servirebbe un sussulto. Magari schierando Elly, che però tentenna. Il Movimento, invece, consoliderebbe il voto di cinque anni fa: 17 per cento. Un successone, visto lo sfacelo paventato prima dell’avvento di Giuseppi. Che comunque, a differenza della titubante generalessa, ha già chiarito da tempo: «Escludo di candidarmi. Il Movimento non mente agli elettori». Tradotto: niente blasonati nomi di facciata, come medita di fare il Pd. In compenso, l’ex premier tenta di assoldare colonnelli. Il suo più riuscito epigono, Pasquale Tridico, sarà capolista nella circoscrizione meridionale. L’ex presidente dell’Inps, indiscusso padre del reddito di cittadinanza, si prepara a una campagna elettorale scoppiettante. Sarà lui il nuovo Masaniello grillino, in trasferta a Bruxelles per conto degli ultimi. Vessillifero di salari minimi, megabonus e sussidi a ufo. Nell’attesa, comincia a malmenare i democratici: «Troppi bulli al centro non vogliono il patto tra Pd e Cinque stelle». L’illustre candidato, certo, promette. Ma potrebbe fare di più. Magari prendendo spunto proprio dall’insuperabile Taverna. Il suo ultimo grido di guerra contro le truppe alleate ancora riecheggia a Palazzo Madama: «Li sfonnamo de brutto!».





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