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Panorama
Апрель
2024

Come cambia pelle il camaleonte turco

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Il presidente Erdogan alle prese con una sconfitta elettorale e un contesto geopolitico rovente, rivedrà anche il suo rapporto con l’Islam politico?

Sono soprattutto i media anglosassoni ad aver letto nella débâcle alle Comunali di Recep Tayyp Erdogan e del suo partito Akp, il partito della Giustizia e dello sviluppo, un vistoso segnale di cedimento del presidente-sultano. Esultanza prematura? Ci vorrà tempo per capirlo. In ogni caso, le elezioni amministrative turche non sono poca cosa: il Paese vota in blocco e l’affluenza è alta. Tira il fiato, dunque, chi temeva che Erdogan fosse al lavoro per cambiare le regole costituzionali e ripresentarsi alle Presidenziali del 2028, oppure per andare anticipatamente alle urne e correre ancora una volta. Di certo, poi, c’è che la scoppola rimediata dall’Akp è stata notevole vista la rilevanza delle piazze in gioco. Il Chp, il partito repubblicano, governa ora le principali città del Paese, tra cui Ankara e Istanbul conquistate già nel 2019, e ha espugnato ulteriori storici bastioni della formazione presidenziale.

Appena un anno fa, tuttavia, Erdogan era uscito vincitore dal voto che l’aveva rilegittimato, avendo la meglio su un’opposizione poco coesa e uno sfidante incolore, Kemal Kiliçdaroglu. Per non perdere i voti delle fasce più deboli della popolazione, il presidente turco aveva accelerato sulla spesa sociale e alzato ripetutamente il salario minimo, salvo poi spingere per un aumento dei tassi per ridurre un’inflazione monstre. Nonostante gli sforzi, il suo tasso ufficiale si è tuttavia attestato al 67 per cento (rispetto allo stesso periodo del 2023), e secondo diversi economisti quello reale è anche superiore. Resta in parte da capire se la battuta d’arresto dell’Akp sia legata in toto al deterioramento economico e alla gestione lacunosa dei terremoti che hanno colpito la Turchia, oppure c’è dell’altro. Al vertice dei repubblicani c’è oggi un leader giovane e dinamico, Özgür Özel, che ha preso il posto di Kiliçdaroglu dopo le Presidenziali dello scorso anno e a breve se la dovrà vedere con il carismatico sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, che ha sconfitto l’Akp a Istanbul già tre volte dal 2019 a oggi e non fa mistero delle sue ambizioni.

Anche se scegliesse di non fare più politica in prima persona, Erdogan punterà a costruire una propria successione. Il potere tende invariabilmente a perpetuarsi, e non sarà il sultano a fare uno strappo alla regola. Quale strategia imposterà quindi per recuperare terreno? In passato il leader turco si è rivelato camaleontico, con frequenti cambi di registro. L’unica costante, in tutti questi anni, è stato l’insistito richiamo al nazionalismo, che peraltro lo accomuna a tutti i suoi rivali politici. A riprova del fatto che la Turchia ha l’autocoscienza di un impero - si considera cioè la diretta discendente della Sublime Porta.

Il responso delle urne mostra che alle Comunali l’Akp ha perso il sostegno di una non enorme (ma crescente) fetta del voto islamista, che si è spostata sul partito Refah. L’interrogativo maggiore di questa fase riguarda proprio il rapporto con la Fratellanza musulmana e più in generale con l’Islam politico, di cui Erdogan è uno dei riferimenti. L’impressione è che il presidente consideri a dir poco rovente l’attuale contesto geopolitico, e possa quindi puntare a una strategia pubblica di «sbollentamento». Ospitare su suolo turco esponenti di Hamas, per dire, è sconveniente, tanto più che Israele (e non solo) ha ormai scelto di colpire non solo quel movimento ma anche i suoi referenti stranieri. Il messaggio è chiaro, così come lo è la crescente insofferenza delle case regnanti del Golfo e dall’India di Modi rispetto all’Islam politico. Erdogan ne è consapevole e non vuole finire relegato nella stessa categoria dell’Iran.

Non si tratta qui di provare a divinare le sue reali preferenze - il suo legame con l’Islam politico potrebbe essere indissolubile - bensì di capire come si posizioni Ankara «messa alle strette». Il discorso vale anche per il «gemello siamese» della Turchia, cioè il Qatar, ed assume forte rilevanza in varie aree del globo: Mar Nero, Balcani e Africa (Maghreb e Centrafrica), Levante, Asia centrale fino allo Xinjang cinese, dove gli uiguri, oppressi da Pechino, sono di etnia turcofona. In sintesi: Erdogan potrebbe approfittare della disfatta elettorale per ricalibrare verso l’esterno il suo rapporto con l’Islam politico. Rapporto che non scompare ma viene declassato sotto soglia di visibilità per evitare che la Turchia, membro Nato, si ritrovi invischiata in una contesa senza quartiere contro Hamas e altre sigle simili, e i loro sponsor globali. Per il resto, il presidente proverà a perpetuare il proprio potere, e non verranno meno né il nazionalismo turco né l’esuberanza strategica di Ankara.





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