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Апрель
2024

Difesa Unione Europea: quell'esercito fantasma

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Sarebbero un elemento decisivo per affermare l’importanza della Ue: ma le forze armate comuni non diventano realtà, nonostante alcune missioni condivise e le minacce di guerra sul continente. Prevalgono gli interessi diversi tra i vari Stati.

«Sulla carta era già tutto pronto. Avevamo previsto una forza congiunta di 60 mila uomini di unità terrestri da mobilitare in 60 giorni e con un’autonomia di sei mesi» racconta l’ex capo di Stato maggiore della Difesa, Vincenzo Camporini. Nel 1999, appena nominato generale, partecipa alla stesura, assieme agli alti ufficiali degli altri Paesi dell’Unione Europea, all’Helsinki Headline Goal, che getta le basi della Difesa comune. L’esercito della Ue «doveva essere in grado di operare fino a quattromila chilometri di distanza da Bruxelles con il necessario supporto di assetti dell’Aeronautica e della Marina. In pratica diventavano 80 mila uomini». Nelle riunioni successive le nazioni offrono più soldati del necessario, ma l’esercito dell’Unione è rimasto un fantasma. Camporini crede ancora nelle forze armate comunitarie: «Uno degli strumenti chiave, ma può avvenire solo nel quadro di una vera unificazione delle politiche estere degli Stati membri. Se non esiste una visione condivisa dell’uso della forza è inutile avere una Difesa europea». In vista del voto di giugno per Strasburgo, un sondaggio dell’Istituto demoscopico Noto rileva che il 53 per cento degli italiani sarebbe favorevole all’istituzione di un esercito comune. Una chimera rispolverata dal presidente del Senato, Ignazio La Russa: «Da ex ministro della Difesa credo che uno degli obiettivi principali debba essere davvero la creazione di un esercito europeo. Non possiamo dipendere solo da quello che decidono gli Stati Uniti».

Bella idea, ma i conti impietosi delle forze in campo, se avvenisse un conflitto diretto con la Russia, fanno capire quanto sia indispensabile l’ombrello Nato di Washington. Il quotidiano Il Foglio ha documentato di recente che a Bruxelles circola una tabella con tre colonne zeppe di numeri. Tutta la Ue può schierare 2.646.490 uomini fra forze attive e riservisti. L’Italia è terza come forze armate, ma debolissima sui riservisti (18 mila), dietro addirittura alla Lettonia. La Federazione russa, da sola, può mobilitare 3.708.000 uomini se vengono sommati anche i paramilitari. «Una forza armata Ue è un’utopia a causa di interessi nazionali e politiche estere diverse. I Paesi baltici hanno un focus sulle minacce da Est, l’Italia sul Mediterraneo, la Francia è molto attenta ai propri interessi e la Germania non si capisce bene dove voglia andare» è il giudizio senza appello del generale della riserva, Marco Bertolini. Il veterano dei paracadutisti aggiunge: «L’Unione è più o meno concorde sull’Ucraina, ma divisa su tutto il resto, dalla crisi migratoria alle mosse in Africa e sulla stessa sensibilità riguardante lo strumento militare e l’uso della forza».

L’avanguardia dell’«esercito fantasma» per il momento vedrà la luce nel 2025 quando dovrebbe diventare operativa la «Capacità di dispiegamento rapido» (Rdc) dell’Unione europea sancita dalla cosiddetta «bussola strategica» lanciata con enfasi dall’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, lo spagnolo Josep Borrell. Tuttavia la montagna ha partorito un topolino: la Rdc arruola appena cinquemila uomini da dispiegare in aree di crisi, anche al di fuori dei confini continentali, ma che non hanno il compito della difesa collettiva. «Borrell fa gran vanto di questo corpo di spedizione, ma stiamo parlando, più o meno, dello stesso numero dei vigili urbani a Roma» aggiunge Bertolini. La prima esercitazione si è svolta lo scorso ottobre a Cadice, in Spagna, con 2.800 soldati. Niente di nuovo: dal 2007 esistono dei Battlegroup europei, unità di 1.500 uomini ciascuno, mai impegnate direttamente.

Le missioni europee, pur sventolando la bandiera blu trapunta di stelline e coordinate da uno Stato maggiore a Bruxelles, sono composte da contingenti nazionali che rispondono alla propria catena di comando e non da una vera forza militare europea. L’Italia, che attualmente ha il comando tattico dell’operazione Aspides per la protezione del traffico mercantile nel Mar Rosso, partecipa a sei missioni europee dalla Somalia al Kosovo e all’inizio per Althea, in Bosnia-Erzegovina, l’Europa schierava seimila uomini. Secondo i dati pubblicati dall’Eurobarometro fin dal 2022, l’81 per cento della popolazione Ue è favorevole a una politica comune di difesa e sicurezza. L’ex generale dell’Aeronautica, Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa, è convinto che «negli ultimi 20 anni tutti si sono nascosti dietro ad una foglia di fico: non essendoci una politica estera continentale non può esistere una difesa Ue. È un alibi che fa perdere tempo. Gli Stati maggiori delle singole nazioni dovrebbero già sviluppare l’impiego comune della forza».

La Commissione europea un piano l’ha varato, ma riguarda gli armamenti. Il 6 marzo scorso è stato presentato a Bruxelles un documento «per accrescere la prontezza industriale europea della difesa. Gli Stati membri devono investire di più, meglio, insieme e in Europa». L’obiettivo è «compiere costanti progressi verso l’acquisizione di almeno il 50 per cento del bilancio per gli appalti della difesa all’interno della Ue entro il 2030 e del 60 per cento entro il 2035». Il vero problema dell’arsenale europeo è la frammentazione: ogni Paese spende per il fabbisogno nazionale senza coordinamento e con pochi progetti comuni di fronte a una Babele bellica. «L’abbiamo visto in Ucraina: un fritto misto di sistemi d’arma. Così non è sostenibile una vera difesa europea» spiega Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation. Camporini rincara la dose: «Più che vagheggiare di un esercito europeo, sarebbe il caso di puntare, concretamente, a una standardizzazione degli equipaggiamenti e degli armamenti». Obiettivo non semplice tenendo conto dei colossi nazionali del settore come Dassault, Krauss-Maffei e Leonardo. «Bisogna indurre i grandi gruppi industriali a forme più strette di collaborazione per evitare doppioni come è avvenuto e si sta ripetendo ancora oggi» osserva Camporini riferendosi ai progetti di caccia multiruolo di sesta generazione.

La guerra in Ucraina ha innalzato il totale dei bilanci delle nazioni Ue a 240 miliardi, l’anno dell’invasione, rispetto ai 214 del 2021. In media i Paesi europei investono l’1,5 per cento del prodotto interno lordo, ma sono al di sotto del 2 per cento richiesto dalla Nato. La Grecia è in testa con il 3,9 per cento e l’Irlanda risulta fanalino di coda con lo 0,2 per cento. L’Europa utilizzerà 1,5 miliardi di euro per la Difesa nel budget 2025-2027. Una goccia nell’oceano, ma Ursula von der Leyen, se fosse riconfermata alla presidenza, vuole nominare un commissario Ue per la Difesa. L’ex generale Carlo Jean ha scritto su Formiche.net, che «la “trovata” di istituire un commissario europeo alla Difesa è ridicola senza che, contemporaneamente, venga finanziato un aumento delle “capacità”, che sono quelle che mancano all’Europa. Ci vorranno decenni e molte centinaia di miliardi per realizzare qualcosa di serio». I passi in avanti non sono da gigante, come la Cooperazione strutturale permanente (Pesco) istituita nel 2017 e rifiutata solo da Malta. In pratica si tratta di 47 progetti di collaborazione che vanno da un comando medico europeo, al sistema di sorveglianza marittima, l’assistenza reciproca sulla cyber-sicurezza e una scuola di intelligence Ue.

Il conflitto ucraino ha portato, lo scorso luglio, all’adozione del regolamento Asap per finanziare con 500 milioni di euro la produzione di missili e munizioni. È la prima volta che il budget comune viene impiegato direttamente nella produzione bellica. L’Unione, però, non è stata in grado di mantenere l’impegno di garantire a Kiev un milione di munizioni entro questa primavera. La Repubblica Ceca è riuscita a tamponare l’emergenza fornendo all’Ucraina 300 mila proiettili di artiglieria. Adesso l’Europa vorrebbe battere cassa dai suoi vari Stati per Kiev, con un esborso di 100 miliardi in cinque anni per sostenere gli ucraini in difficoltà sui 900 chilometri di fronte. Il ministro belga della difesa dice che è un’illusione. Le presidenziali americane saranno in ogni caso un giro di boa cruciale. Se Donald Trump tornasse alla Casa Bianca chiederebbe il «conto» del 2 per cento di Pil per la Difesa a tutti i membri Nato, come ha più volte ripetuto, fin dal precedente mandato e ribadito in maniera rude in un comizio dello scorso febbraio. «Da parte degli Stati Uniti c’è una sorta di disimpegno dall’Ucraina dettato dalla campagna elettorale» osserva Bertolini. «La Nato si è spinta molto in avanti, soprattutto con il segretario Jens Stoltenberg, ma dipende comunque dagli americani. Per questo l’Europa, che ha la guerra in casa, rischia di rimanere con il cerino acceso in mano non sapendo bene che cosa fare per uscire dall’impasse».





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