Turbante sì, burkini no: come il mondo tratta lo straniero
La Germania allarga le maglie dei visti, la Francia rinuncia alla vendita di hijab sportivi, gli Usa litigano sulle quote razziali nelle università, il Canada premia le aziende che agevolano i «nuovi arrivati». Mentre in Italia si chiudono i porti, all’estero affinano nuove strutture socio-economiche per includere lo straniero, permettendo, negando o incentivando il mantenimento della propria cultura d’origine. «Ciascun Paese adotta una diversa strategia di integrazione. Tutte però sono riconducibili a due paradigmi: quello tedesco che affonda le radici nello ius sanguinis (sei tedesco se hai almeno un po’ di sangue tedesco) e quello francese costruito sullo ius soli (se servi la Francia sei francese)», spiega Shinasi Rama, professore di Relazioni internazionali alla New York University. «Dall’esempio francese si sono poi sviluppati i modelli statunitense e canadese». Vediamoli tutti e quattro.
GERMANIA: IL LAVORO C’È
«Fino agli anni ’90 in Germania c’era divisione tra i cittadini tedeschi e i gastarbeiter, i lavoratori ospiti (in maggioranza turchi) esclusi dalla vita sociale e politica del Paese. Le leggi sull’immigrazione si sono via via ammorbidite, garantendo l’accesso alla cittadinanza anche ai migranti», spiega Rama. Nel 2015, l’apice dell’apertura: un milione di rifugiati siriani in fuga da Assad vengono accolti da Angela Merkel. Poi, la retromarcia: non solo la nuova leader della Cdu Kramp-Karrenbauer ha annunciato che, in caso di nuove ondate, chiuderà i confini, ma ora è boom di espulsioni: +24,5%, contro il 15,1% del 2017. Chi resta, però, può acquisire il permesso di soggiorno in modo facilitato: serve colmare il vuoto di 1,2 milioni di posti di lavoro.
FRANCIA: SOPRATTUTTO ÉGALITÉ
«Conseguenza del passato coloniale, chiunque nasca in Francia o serva la Francia può diventare francese. Poco importa la provenienza etnica. I cittadini sono uguali di fronte allo Stato, che è laico e – presumibilmente – neutrale». L’espressione della differenza non è quindi incentivata, anzi. Dopo il divieto, nel 2004, di indossare segni religiosi nei luoghi pubblici (niente velo e burkini per le musulmane, niente kippah per gli ebrei, via il crocifisso dalle aule), il mese scorso Decathlon si è vista costretta a ritirare gli hijab da corsa dal mercato francese: alcuni parlamentari, convinti che il velo sia in contraddizione con la laicità dello Stato, avevano esortato i loro elettori a boicottare la multinazionale.
STATI UNITI: OGNI ANNO, UN MILIONE DI STRANIERI
I movimenti suprematisti, gli attivisti di Black Lives Matter, gli sportivi che si inginocchiano durante l’inno americano: la questione del razzismo negli Usa culmina con l’elezione di Trump. Il Muro del Messico e le carovane di disperati dall’Honduras hanno riacceso il dibattito sui flussi migratori. «Ogni anno, negli Usa, arrivano un milione di stranieri, che dovrebbero entrare nel melting pot (in italiano, calderone, ndr) e formare una cultura americana omogenea. Dove ciò che conta è, in primo luogo, la fedeltà alla Costituzione». Per facilitare l’integrazione, si usano anche le «quote razziali», per esempio per l’ammissione alle università. Ma si tratta di un tema non esente da polemiche: l’ultima ha riguardato Harvard, querelata nel 2018 per discriminazione verso gli asiatici, gli studenti più performanti.
IL VERO SOGNO È QUELLO CANADESE
«Per attrarre immigrati di alto livello (colletti bianchi e lavoratori specializzati), il Canada sviluppa piani di insediamento a lungo termine che prevedono la valorizzazione delle varie etnie». Il Multiculturalism Act promulgato nel 1988, infatti, riconosce sia i diritti individuali, come l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, sia i diritti delle comunità straniere: quindi sì ai veli, alle kippah, ai crocifissi e alle lingue diverse dalle ufficiali, l’inglese e il francese, con giornali, radio e canali televisivi. Ogni anno, il governo assegna un premio all’azienda che meglio collabora al processo di integrazione. Il vincitore del 2019 è la Royal Bank of Canada, per una piattaforma di e-learning sulla comunicazione cross-culturale.