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Июнь
2019

Francesca, mamma con l’ovodonazione: «Mi ero rassegnata a non realizzare il mio sogno»

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Ha cercato un figlio per vent’anni e, dopo tanti tentativi falliti, ha deciso di ricorrere all’ovodonazione all’Istitut Marquès di Barcellona. Ci ha raccontato la sua storia

Francesca ha i minuti contati: da tre mesi divide il suo tempo fra pannolini, poppate e ninne nanne. Da quando è nata Lucia. Provava a diventare mamma da quando aveva vent’anni: ci è riuscita a quaranta. Appena sposata, ha cominciato a cercare un figlio: da quando era piccola sognava una casa rumorosa e colorata, piena di bambini. Ma non succedeva nulla. Dopo le prime visite, Francesca ha capito che qualcosa non andava: con il sostegno del marito, nel 2007 ha tentato l’inseminazione artificiale, ma senza successo. Sconfortata, per una decina di anni ha abbandonato l’idea della maternità, e ha ricominciato a ripensarci solo nel 2016: tre tentativi di fecondazione assistita, però, sono andati a vuoto. A 39 anni, Francesca era rassegnata: la qualità dei suoi ovociti non era abbastanza buona per una gravidanza evolutiva. Poi, la svolta: nel centro medico a cui si era rivolta, le hanno consigliato di provare l’eterologa con ovodonazione.

In Italia mancano donatrici di ovuli
In Italia, fino a pochi anni fa, non era possibile ricorrere a questa tecnica di fecondazione eterologa: lo vietava la legge 40 del 2004. Il divieto è stato superato nel 2014 grazie ad una sentenza della Corte Costituzionale. Ma all’eterologa possono ricorrere solo coppie di fatto, sposate o conviventi, ed eterosessuali. Non le donne single né le coppie omosessuali. L’altro problema è rappresentato dalla carenza di donatori di sperma e donatrici di ovociti: in Italia la donazione è volontaria e anonima e la legge vieta qualsiasi tipo di remunerazione (eccetto il rimborso delle spese). Inoltre, manca ancora la «cultura» della donazione dei gameti, proprio come fino a pochi anni non c’era nemmeno quella della donazione degli organi. Per questo motivo, moltissime coppie si rivolgono a paesi dalla legislazione più sviluppata, come la Spagna, che ospita tanti centri per la riproduzione assistita. Francesca ha scelto uno dei più noti, l’Istitut Marquès di Barcellona, ed è lì che l’abbiamo incontrata.

L’ovodonazione a distanza
La fecondazione in vitro con donazione di ovuli è la tecnica di riproduzione assistita con il più alto tasso di gravidanza per ciclo. L’Institut Marquès ha percentuali di successo dell’89% per ovodonazione: esegue il trattamento con ovuli freschi e, nel caso di donazione a distanza, con embrioni vetrificati, perchè la percentuale di successo è equivalente. In entrambi i casi, la fecondazione si realizza nei laboratori di Barcellona.

I pazienti italiani possono scegliere se eseguire il trattamento con la donazione di ovuli in Italia senza dover viaggiare, oppure a Barcellona. Nel primo caso volano in Spagna solo per il trasferimento dell’embrione. Nel secondo, gli embrioni vengono vitrificati e viaggiano per incontrare i loro futuri genitori (la donazione di ovuli a distanza) che possono realizzare il transfer in Italia: è stata questa la scelta di Francesca.

Il patrimonio genetico di un’altra donna
Ricorrere all’ovodonazione significa mettere in conto che il proprio figlio erediti il patrimonio genetico di un’altra donna. Francesca ci ha pensato a lungo, ha valutato quello che significava davvero per lei e ha deciso. «Ne ho parlato con mio marito e ho capito che il mio desiderio di diventare mamma era ben più forte di quello di trasmettere i miei geni. Adesso sono felice della mia scelta, e del percorso che mi ha portato ad abbracciare il mio bambino mi importa poco». In realtà il discorso è più complesso: l’epigenetica, una branca della biologia molecolare, dimostra che c’è un importante scambio di informazioni tra l’embrione e la madre, e che questa corrispondenza può modificare l’informazione genetica del figlio anche quando l’ovulo è stato donato. Uno studio della Fondazione Ivi pubblicato su Development spiega come avviene questa comunicazione: durante l’impianto, l’embrione interagisce con l’endometrio materno, che secerne il fluido endometriale che serve per nutrire l’embrione. Ma l’epitelio endometriale della mamma rilascia anche delle piccole molecole, microRNA, capaci di modificare l’espressione di alcuni geni dell’embrione. In questo modo, la futura madre riesce a modificare il genoma del figlio e a trasmettere caratteristiche proprie al bambino.

«Le racconterò la verità»
Un domani Francesca racconterà il suo percorso alla figlia: le spiegherà che cos’è l’ovodonazione e perché i suoi genitori hanno deciso di ricorrervi. Ma non ha fretta: «Penso sia sempre giusto dire la verità. Non solo perché sappia quale è stata la sua storia, ma anche perché, chissà, forse in futuro anche lei potrebbe avere bisogno di servirsi dell’eterologa, se dovesse avere problemi ad avere figli. Deve sapere che esistono queste possibilità e deve essere consapevole di quanto sia stata desiderata. Mi piacerebbe anche che lei considerasse la scelta dei suoi genitori un esempio di determinazione».

Gli esperti, però, suggeriscono ai genitori di bambini nati con l’eterologa di non temporeggiare troppo, se hanno intenzione di raccontare ai figli il loro percorso. «È meglio introdurre il discorso quando i bimbi sono ancora piccoli», ci spiega il dottor Jordi Suñol, che fa parte dell’équipe medica dell’Institut Marquès. «Molte famiglie scelgono di farlo raccontando una storia personalizzata, che possa essere compresa da un bambino di tre o quattro anni: in questo modo la propria vicenda sarà vissuta con naturalezza. Non è consigliabile parlarne ai figli quando sono adolescenti, perché attraversano una fase di instabilità emotiva dovuta all’età e potrebbero sentirsi disorientati». Guido Pennings, professore di etica e bioetica alla Ghent University (Belgio) e direttore del Bioethics Institute Ghent, ha condotto molti studi per analizzare questi aspetti dell’eterologa.

«Non è la connessione genetica a causare l’attaccamento»
E le madri, come vivono l’idea della donazione di gameti? Secondo uno studio che raccoglie le esperienze di dieci donne dai 36 ai 47 anni durante il trattamento di fecondazione assistita con donazione di ovociti e embriodonazione, «tutte le donne sentivano che il bambino erano figlio loro. Inoltre tutte hanno dichiarato che l’amore per i loro figli non era influenzato dal fatto che non condividevano un legame genetico. Ciò suggerisce che la capacità delle pazienti di legarsi al bambino non era influenzata dal legame genetico», proprio come sostengono ricerche precedenti. «Il rapporto genitore / figlio nelle famiglie che si sono sottoposte a procreazione medicalmente assistita con donazione di gameti è buono come nelle famiglie tradizionali e sorregge il punto di vista della teoria dell’attaccamento di Bowlby: non è necessariamente la connessione genetica ma sono le interazioni positive che causano l’attaccamento emotivo».

Francesca è comunque sollevata all’idea che la donatrice sia destinata a rimanere anonima, come prevede la legge: «Mio marito ed io le siamo assolutamente grati: ci ha aiutato a coronare il sogno più importante. Da una parte mi piacerebbe conoscerla per poterla ringraziare di persona, ma dall’altra no: non vorrei che un domani si presentasse a casa nostra e rivendicasse qualche diritto nei confronti di mia figlia. L’anonimato, per me, è una garanzia di tutela per il bambino».

C’è un messaggio che vorrebbe trasmettere a tutte le coppie che desiderano un figlio e non riescono ad averlo: «Non mollate. Oggi esistono tecniche che possono aiutarvi a realizzare il sogno di una famiglia. E se decidete di intraprendere il mio stesso percorso, non aspettate un giorno in più per cominciarlo».

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