Niccolò Agliardi: «Quel che ho imparato dai figli in affido (trap compresa)»
«Un astuccio, con dentro un compasso e un flauto dolce». Oggetti che Niccolò Agliardi, cantautore milanese classe ’74, pensava di aver «dimenticato o disintegrato». E invece eccoli che riaffiorano, sparsi sul tavolo della cucina, al fianco di una pila di piatti sporchi. Formando la cartolina perfetta di una vita che fino a qualche anno fa sembra impossibile, ma che invece è stata e continua ad essere. «Merito dei miei figli in affido», racconta nel suo nuovo romanzo «Per un po’ – Storia di un amore possibile», edito da Salani. «Un’esperienza incredibile, che trasforma e arricchisce».
Andiamo con ordine, quando ha iniziato a pensare all’affidamento?
«Nel 2013, quando mi sono occupato delle musiche della serie tv “Braccialetti rossi”. Sul set ho legato molto con uno degli attori, un ragazzo che aveva vissuto l’affido: lì ho capito cosa significa e ho cominciato a prendere contatti con la fondazione L’Albero della Vita».
Anche perché in Italia se ne parla poco.
«Sradicare un bambino dalla sua famiglia d’origine è una forte violenza, non è semplice, e la legislazione in materia è ancora nebulosa. Però va detto che in Italia il meccanismo funziona abbastanza bene, tra tribunali e servizi sociali».
Così in casa sua è arrivato Federico. Prime sensazioni?
«All’inizio non è mai facile perché apri le porte a un perfetto sconosciuto: nel mio caso di 17 anni, quindi con lati della personalità già calcificati. Quelli non sono i tuoi odori, non è il tuo linguaggio, non è il tuo modo di stare a tavola. Eppure…».
Una specie di controsenso.
«Proprio così: accetti l’estraneità in casa, un’estraneità che cerci di trasformare in familiarità. Forse per me è stata una paternità più facile visto che sull’accoglienza sono un campione. Magari a cambiare il pannolino sarei stato meno bravo».
Non sente la mancanza di un figlio biologico?
«Assolutamente no. Anche perché da qualche mese sono diventato padre affidatario di un secondo figlio che è arrivato in casa mia che aveva solo 14 anni e ha colmato quello spettro di azioni che competono ad un padre naturale, come ad esempio insegnare a farsi la barba. A Federico avevo poco da insegnare, dovevo solo traghettarlo verso l’età adulta».
Comunque, come si legge nel libro, gli ha insegnato molte cose.
«Legate soprattutto alla gestione della quotidianità, come pagare una multa se ti beccano sul tram senza biglietto, il rapporto causa-effetto. Poi a mangiare altri cibi che non siano solo carne e pasta al sugo. Che se ti lavi i piedi un po’ più spesso non succede nulla. E a dire ogni tanto ti voglio bene»
E lei invece cos’ha imparato da Federico?
«Innanzitutto ho iniziato a capire la trap che credevo fosse il demonio (ride, ndr). Mi ha insegnato a non cercare per forza un senso, a non giudicare e a non chiedere sempre, certe risposte arrivano con altre modalità: grazie a lui ho gestito meglio il secondo affido».
Ha sospeso il giudizio anche sui genitori che abbandonano i figli?
«Non voglio assolvere, ma credo che un abbandono sia spesso figlio di un altro abbandono. È impossibile mettersi nei panni di un genitore che non può o non è in grado di restituire quell’amore che fisiologicamente dovrebbe dare. Qualsiasi giudizio sarebbe inutile».
Lei, infatti, ha cercato di mantenere dei buoni rapporti con la madre di Federico.
«C’è un cordone ombelicale che ti legherà sempre al tuo papà e alla tua mamma, non ha senso entrare in competizione con la famiglia d’origine. È figlio tuo, ma anche di un’altra famiglia, che può sembrare una stranezza: ma l’affetto che provi e la responsabilità ti rimangono attaccati alla pelle».
Anche quando l’affido, legalmente, finisce?
«Questa è forse la fatica più tosta dell’affido, da cui prende spunto anche il titolo del libro. Come genitore, per la legge, sei teoricamente “per un po’”, ma devi fare i conti con il “per sempre” che hai nel cuore. Adesso Federico, per la legge, a tutti gli effetti non è mio figlio: non ho un documento, un contributo statale, non ho il sangue. Eppure è mio figlio uguale, lo sento».
Non ha mai pensato di interrompere?
«Io sono un caso un po’ anomalo perché sono single, ho sempre considerato l’affido come qualcosa di “per sempre”. Quando ti scatta il senso di paternità non torni più indietro, non riesci a dire dopo 20 giorni “ok ho sbagliato, basta”. Diventi un punto di riferimento imperituro e costante».
Eppure, come si legge anche nel libro, ci sono stai momenti molto difficili.
«Ricordo una mattina che mi svegliai molto presto perché avevo una diretta in radio e mi accorsi che lui non era tornato a dormire. Il cellulare suonava a vuoto e mi prese un’ansia pazzesca: lì pensai “chi me l’ha fatto fare” (ride, ndr)».
Si è mai sentito impotente di fronte a certi comportamenti?
«Io credo che in un ipotetico puzzle, il tassello che manca sia quello dell’abbandono. Il vuoto cosmico lasciato da un genitore che non è stato in grado di prendersi cura del proprio figlio. Lì non puoi farci nulla, ma con Federico sono comunque stati molti di più i punti di contatto rispetto a quelli di non contatto».
Ad esempio?
«Magari prima di una cena a cui tenevo gli chiedevo di non mettersi la canotta o la tuta. E lui mi sorprendeva seguendo il mio suggerimento, per cercare appunto un contatto con me. Momenti bellissimi, come quando si apriva e mi raccontava della sua famiglia, di sua spontanea volontà».
Crede di essere riuscito nella «missione» del genitore?
«Oggi Federico lavora, ha una fidanzata, si paga un affitto. È stato un affido un po’ sui generis, ma sono felice di avergli dato la possibilità di salire su un piccolo traghetto e raddrizzare una strada che era storta da tempo. Forse il messaggio più importante è proprio questo: la catena, intesa come circolo vizioso, si può spezzare».
Un amore possibile, appunto.