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Январь
2020

La dittatura dell’ottimismo a cui ci condannano i social network

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Instagram oscura il conteggio dei «Mi piace», così vorrebbe fare Facebook: ma cambia davvero qualcosa? E che tipo di società ha costruito l'assenza di un «Non mi piace»? Un nuovo libro sul tema e le istruzioni per usare meglio il social di Zuckerberg
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Nel tempo della rivoluzione digitale – caratterizzato da uno sviluppo senza precedenti delle soluzioni tecnologiche, che porta con sé una serie di conseguenze più o meno visibili – «Per un pugno di like» di Simone Cosimi, giornalista e studioso di tecnologia e società, collaboratore di «VanityFair», è un saggio utile a imparare a difendersi e conoscere il territorio dei social, un vero e proprio manifesto sul valore del dissenso in un mondo di Mi piace.

Non solo Facebook quindi: pochi sanno che mettere Like a un post non corrisponde semplicemente a un gesto di approvazione, a una dichiarazione d’intenti, a un esercizio di gusto, ma è un segno che rivela alle diverse piattaforme una quantità sorprendente d’informazioni: una singola azione con molteplici effetti che sfuggono il più delle volte al nostro controllo, come una traccia, un indizio che ci si lascia dietro.

Dunque, cosa significa davvero cliccare like? «Mettere “Mi piace” sotto un elemento su Facebook è un modo per far sapere alle persone che quell’elemento ti piace senza scrivere un commento. Proprio come un commento, chiunque possa vedere il post potrà vedere che hai messo “Mi piace”». Così recita la pagina del labirintico centro assistenza del social network (ex) blu, aggiungendo che «ad esempio, se clicchi su Mi piace sotto il video di un amico: le persone che fanno parte del pubblico del video potranno vedere che ti piace; la persona che ha pubblicato il video riceverà una notifica relativa al tuo Mi piace».

Sembra una banalità, invece è un punto essenziale, perché iniziale: spesso, nella percezione illusoriamente intimistica della bacheca, tendiamo a considerare il Mi piace come un affare fra noi e l’autore del post. Sono io che lo clicco, sarà lui che ci bada. Non è (solo) così: il Mi piace è il primo e più importante sassolino che distribuiamo sulla piattaforma. Prova ne sia il fatto che, semplicemente accedendo alle impostazioni, siamo in grado di ripercorrere all’indietro tutte le nostre azioni sul sito accedendo al«Registro attività». Dove ritrovare anche i like sparpagliati da sempre. Volendo, pochi lo sanno, possiamo rimuoverli anche dopo molto tempo.

Un’altra faccenda che in pochi conoscono perché, come spesso accade, prevede un interesse e perfino una curiosità più radicali rispetto a quelli manifestati dall’utente medio, è quella di limitare il pubblico per individuare con precisione chi sarà essere in grado di cliccare Mi piace o di lasciare un commento ai nostri post futuri. Se infatti viene pubblicato un post pubblico, chiunque può mettere Mi piace o commentarlo di default, anche chi non ci segue. Tuttavia, può appunto essere utile modificare l’impostazione relativa alle persone che possono lasciare un Mi piace ai propri post pubblici o commentarli. Insomma, meglio non dimenticare mai che il like è biunivoco.

Ancora, si pensa spesso che i Mi piace siano del tutto gratuiti. Questo ovviamente non è vero. Al netto delle agenzie specializzate, che spesso navigano sul filo della legalità, i like (per una o più pagine che si curino) si possono in un certo senso pesare economicamente all’interno di campagne pubblicitarie che chiunque può impostare attraverso la piattaforma dedicata del social. Non a caso Facebook si premura anche di precisare in modo chirurgico quali siano i Mi piace da considerarsi a pagamento: «Sono quelli che si verificano durante un giorno dalla visualizzazione dell’inserzione per la tua pagina entro 28 giorni dal momento in cui una persona ha cliccato sulla tua inserzione», spiega sempre nel centro assistenza.

Come è chiaro da alcune delle istruzioni appena svelate, il volume ripercorre dunque dall’inizio la storia di questo ingrediente essenziale del web contemporaneo (dalla nascita nell’ambito degli studi di marketing degli anni Novanta ai primi esperimenti su FriendFeed, passando attraverso le diverse evoluzioni e incarnazioni che ha trovato su InstagramTwitterTikTok e sulle altre piattaforme) fino scoprirne il carattere fondativo per i modelli di business dei social, il fascino che esercita e le conseguenze più imprevedibili.

Lo spiega subito Bruno Mastroianni, filosofo, giornalista, social media manager e scrittore, nella prefazione al volume, appena pubblicato da Città Nuova (120 pagine, 16 euro): «Il libro che avete per le mani vi sottoporrà a una specie di cura del dissenso che aiuta a scoprire qualcosa in più della realtà che ci circonda, proprio nel momento in cui siamo immersi fino al collo in una cultura del consenso (del like, appunto) che di quella realtà tende a oscurare parti importanti».

Nessun dibattito dai toni apocalittici. Si tratta semmai di un manuale di autodifesa (e consapevolezza) per consegnare, al termine della lettura, una specie di cassetta degli attrezzi minima per non perdersi nella dittatura dell’ottimismo, per non ragionare a senso unico e per orientarsi in un presente spesso confuso e nel quale è diventato praticamente impossibile sfuggire alla rete. «Per un pugno di like» permette infatti di accostare senza pregiudizi (con occhi ben aperti) una trasformazione progressiva che non ha precedenti – che ha modificato radicalmente il modo di vivere in società – e poterla comprendere e finalmente affrontare in modo costruttivo e responsabile.

Il saggio di Cosimi – che ha già alle spalle due volumi, sempre usciti per Città Nuova, sul rapporto fra social network e minori come «Nasci, cresci e posta» e «Cyberbullismo», scritti con lo psicologo Alberto Rossetti – è anche una ricerca semantica nata dalla convinzione che ci sia bisogno di sempre nuove osservazioni e analisi, di riconsiderare i meccanismi digitali e soprattutto, non da ultimo, il linguaggio che li accompagna: anche più di recente, con gli esperimenti di piattaforme come Instagram sull’oscuramento del conteggio totale dei Like, nulla è cambiato. Il cuoricino sull’app videofotografica, o il pollicione su Facebook, continuano a dragare le informazioni sul nostro conto e il loro numero è ancora ben visibile sia agli autori di un post che, a ben vedere, al pubblico stesso.

Filo rosso del libro è infine una domanda: perché i miliardi di utenti non hanno a disposizione il cosiddetto «dislike», cioè il pulsante per manifestare in modo simmetrico al Mi piace la propria opposizione? Sono molte le risposte proposte fra le pagine. Una delle più interessanti è questa: le piattaforme hanno costruito un ecosistema in cui chi ha qualcosa di diverso da dire rispetto a un banale pollice alzato a deve faticare. Scrivere un commento, condividere, pubblicare qualcosa. Con tutto quello che ne consegue, per esempio in termini di hate speech: «Non solo per difendersi dai potenziali rischi, ma per agire attivamente e costruire il senso delle proprie relazioni online in modo più libero, magari trascinando in questo anche gli altri attorno proprio grazie al potere di quell’atto così piccolo e personale, ma così potente e pubblico, che è concedere il pollice all’insù a qualche contenuto che incontriamo nella vita interconnessa».

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