Generic Animal: «Dall’istituto professionale alla musica»
È un omino viola sdraiato sul letto a campeggiare sulla cover di Presto, bambino figlio di un immaginario comune a tanti. «Si dice che il viola sia il colore della trap, del purple lean, di un delirio drogato. Ho deciso di accollarmelo», spiega Luca Galizia. Il ragazzo, nato nel 1995 nella provincia di Varese, ha studiato come odontotecnico per iscriversi poi all’Accademia delle Belle Arti di Brera, a Milano. «Non è rimasto molto del periodo in cui disegnavo il Bestiario medievale. Dopo quattro esami, ho mollato tutto: mi sono rasato a zero e ho deciso che sarei rimasto così per tutta la vita, pelato». La testa lucida, quel contrasto netto con i propri 25 anni, Galizia l’ha nascosta sotto un capellino verde, con la tesa corta e i bordi mangiati dal tempo. La figura magra l’ha vestita di una t-shirt extralarge, le mani sottili impreziosite da minuscole fasce d’oro. Parla tanto, parla bene. E nel parlare racconta di un passato composito che, nell’arco breve di qualche anno, lo ha portato ad essere un musicista.
Il nome d’arte, Generic Animal, lo ha preso dal proprio passato, quasi a voler trovare un filo conduttore tra esperienze poi accantonate. «Era un disegnino di un animaletto, è diventato il mio nome», racconta il cantante, che il 21 febbraio debutta con Presto, il suo terzo disco da solista nel quale si mescolano il rap e l’hip hop, il soul, l’rn’b e il rock. «Si può dire io l’abbia concepito in tre macrofasi. Una prima parte l’ho scritta quando stavo ultimando il mio primo album. Un’altra qualche tempo dopo, sul finire del mio primo tour. Credo fosse un periodo di transizione: me ne succedeva una ogni giorno e mi sentivo uno sfigato. Ero incazzato con mio padre, avevo dovuto affrontare il terzo trasloco. Poi, sono venuti altri giorni di sfiga e ho scritto la terza parte». Ride, Galizia, e Presto lo descrive con le parole riservate ad un processo di crescita interiore, con la consapevolezza che la musica è chiave di lettura di se stessi, un modo per conoscere e capire quel che la vita ci riserva.
Tra i dodici brani della tracklist, spiccano i featuring con Franco126, Massimo Pericolo, Nicolaj Serjotti. Come li ha scelti?
«Le collaborazioni sono nate da un interesse reciproco. Non volevo avere un album che contenesse featuring commerciali, mossi da una bieca ricerca strategica. Ho pensato di coinvolgere gli amici, gente che spacca. Massimo Pericolo, ad esempio, ha scelto da sé quale canzone cantare».
Si spieghi.
«Ci conosciamo da tempo, da che abbiamo 16 anni. Non siamo mai stati d’accordo in fatto musicale, ma tra noi c’è sempre stato un rapporto di stima reciproca e di scambio, fluido e sincero. L’ho invitato a casa e gli ho chiesto di ascoltare il disco. Mi ha detto: “Scherzo è mia”. Parla di scuola e il nostro background è condiviso».
Istituto professionale per entrambi. A sentirlo, il disco, sembra quasi le manchi.
«La necessità nostalgica di tornare all’adolescenza, percepibile nell’album, nasce dalla solitudine, dall’incapacità di spiegarmi certi cambiamenti. Spesso, capita che io non riesca a razionalizzare le cose che ho scelto, e la paura prende il sopravvento».
Cosa non si spiega?
«Il palco, la paura di trovarmi di fronte a tante persone, la stessa che avevo a 7 anni, durante la recita scolastica. So che sto vivendo quel che avrei sempre voluto, ma capita io ne sia spaventato».
Eppure è stato al Forum, ospite di Gazelle…
«Sì. Adesso, però, sono fermo da un po’. Il mio tour partirà il 26 febbraio dalla Santeria Toscana 31 di Milano per concludersi il 9 aprile al Mercato Nuovo di Taranto. Vorrei dire che spaccherò, ma c’è strizza».
La musica aiuta a canalizzare un disagio, che è in parte esistenziale e in parte generazionale?
«Credo di sì, anche se nel processo di scrittura io cerco di non prendere ad esempio nessuno: non un mio coetaneo, non un grande artista. Non adesso, perlomeno».
E quando?
«In passato, è capitato. Ascoltavo una band e rimanevo stupefatto dalla teatralità dei testi, dalla loro drammaticità. Cercavo di emularla, scrivevo in inglese perché l’inglese mi consentiva di portare una maschera. Oggi, scrivo per me stesso, in italiano, perché l’italiano riflette la mia evoluzione».
https://www.youtube.com/watch?v=ZrFdRTeq8PIE, in parte, la sua vita. In Volvo, ad esempio, canta a suo padre.
«E alle macchine, che erano sempre un po’ più brutte, un po’ più usate. Mio padre è un dentista, ma io l’ho visto laurearsi. Ha sempre lavorato e sempre studiato: ha fatto tre figli e, negli anni, portato a casa una laurea che gli ha consentito di avviare la propria attività. Gli voglio molto bene, abbiamo anche lavorato insieme. Per un po’, è stato mio supplente a scuola».
E com’è andata?
«Bene, mio padre è un insegnante sui generis. Quando è morto Lucio Dalla, suo cantante preferito, ha imposto ai suoi studenti un po’ tamarri un minuto di silenzio. Volvo è una canzone metaforica. Parla di come vedi i tuoi genitori quando sei un bambino e come li vedi, invece, da adulto».