Paolo Conte: il principe della musica italiana arriva al cinema
«Si chiama Conte ma è il principe della musica italiana. Inobliabile». Così Roberto Benigni definisce Paolo Conte nel documentario a lui dedicato Paolo Conte, via con me, diretto da Carlo Verdelli e presentato alla 77. Mostra del cinema di Venezia, per poi uscire al cinema il 28, 29 e 30 settembre. Un parterre di amici e «commentatori» illustri descrive e racconta il cantautore di Asti nel film, da Vinicio Capossela a Jovanotti, da Francesco De Gregori a Pupi Avati, da Isabella Rossellini a Jane Birkin e tanti altri, con la voce narrante di un emozionato Luca Zingaretti. Così, nell’alternanza studiata di immagini tratte dell’archivio personale di Conte, interviste di Verdelli, riprese dei tour internazionali, ricordi dei cori di Azzurro dai balconi durante il lockdown, aneddoti e testimonianze varie, sullo schermo sfilano i mille volti di un artista eclettico, unico e molto amato, che ha fatto la storia della musica italiana.
Verdelli, ha firmato il ritratto intimo e celebrativo di una figura titanica che avrebbe potuto fare l’attore, ma l’ha sempre rifiutato. Come lo ha convinto?
«Mi e ci ha convinto la sua manager Rita Levato, in realtà. Anche Nicola Giuliano, tra i produttori del film, ha raccontato di aver tentato almeno tre volte di proporgli qualcosa come attore e Conte ha sempre rifiutato. Di certo ha una faccia cinematografica».
Conte rifugge l’autobiografia, eppure con lei è stato generoso. Ci racconta il vostro primo incontro?
«Nel 1980 un locale di Napoli, il City Hall, aveva aperto con Chet Baker e c’era una festa con Andy Warhol in cui io facevo il dj. Paolo Conte venne da solo con il pianoforte, io ero fuori dal locale e aspettavo gli amici, a un certo punto arriva in Jaguar Renzo Arbore con Roberto Benigni, Isabella Rossellini e Marisa Laurito, venivano dal set di Il Papocchio per sentire Conte. Ho un ricordo vivido di quella prima volta che lo ascoltai dal vivo. Poi cinque anni fa ho avuto la chance di parlarci a lungo per il mio documentario su Caterina Caselli. Secondo il tipico humor contiano e in linea con la sua filosofia della “grazia plebea”, di lei mi disse: “Canta come una lavandaia”. Nacque tra noi una simpatia, basata soprattutto su una grande affinità sui sentieri del jazz».
Benigni e gli altri nel film sottolineano la parsimonia della presenza dell’artista Conte: quanto manca, agli artisti di oggi quella sobrietà così piena di sostanza, di fermento creativo e poetico?
«Molto. La forza di Conte è sempre stata quella di essere per sottrazione: non esserci, eppure al contempo esserci con le sue canzoni».
Perché piaceva tanto alle donne, come ricorda Pupi Avati, ma anche Luisa Ranieri?
«Perché ha stile, ha fascino, somiglia a un attore degli anni 40, è l’anello di congiunzione tra Amedeo Nazzari e Clark Gable, e musicalmente tra Tom Waits, Enzo Jannacci e Duke Ellington. Conte è una sintesi perfetta tra mondi che si scontrano».
Il momento più emozionante del film è il ricordo della madre di Conte e il suo rapporto intenso con la canzone Azzurro, ma anche l’intuizione di accostarvi le immagini del lockdown, come a voler dire che ad unire è sempre la sua canzone, ormai patrimonio nazionale.
«Azzurro è diventato il pezzo simbolo dell’Italia che si rialza,in effetti. Questo lo rende ancor più magico, ecco perché in sede di montaggio ho voluto inserire le immagini del nostro lockdown».
Grande assente tra i suoi intervistati è Adriano Celentano, posso chiederle come mai?
«Ci ha dato l’autorizzazione di usare le sue versioni di Azzurro e di La coppia più bella del mondo, ma era impossibilitato a partecipare al nostro documentario perché stava registrando il suo programma».
Quanto ha tagliato e cosa, tra tutto ciò che non ha messo, le spiace di non essere riuscito a inserire?
«Dei brani ho tagliato un live molto bello al Blitz con Paolo Conte al vibrafono, Pupi Avanti al clarinetto, Renzo Arbore e Hengel Gualdi, un peccato ma eravamo decisamente fuori dalla durata del film, che ad oggi è di 100 minuti. Per lo stesso motivo, delle interviste ho asciugato qualche battuta di De Gregori, Pupi Avati e Patrice Leconte».
Chi è oggi l’erede di Conte?
«La sua poetica sta in diversi artisti, come Vinicio Capossela. Ma lui resta unico».