Il sogno di avere ferie illimitate
Mettere in pausa le attività lavorative quando e per quanto vogliamo: in due parole, ferie illimitate. Per coloro che considerano la libertà in cima alle proprie priorità anche nel contesto professionale è difficile pensare a qualcosa di più appetibile. Le motivazioni per prendersi una pausa possono essere diverse e non includono necessariamente una vacanza. Capita a tutti noi di avvertire non farcela più, di essere esausti, di dover scendere da quella giostra vorticante che può diventare il lavoro.
Sì, perché il burnout, cioè l’esaurimento dovuto al troppo lavoro e allo stress correlato, è sempre dietro l’angolo in un contesto professionale in cui è sempre più difficile mettere un freno a ciò che dobbiamo fare. La lista dei to do talvolta sembra non finire mai, e anche la nostra mente ne risente (e il corpo in genere segue a ruota).
Ma non è solo questo: dopo una pausa, un cambio d’aria, di prospettiva, le nostre facoltà si rigenerano; non ci dobbiamo sorprendere, ad esempio, se proprio quando non siamo al lavoro ci viene in mente un’idea geniale; a questo proposito è interessante lo stile di vita dei nomadi digitali (per capire se la vostra professione è compatibile con questa impostazione, sfogliate la gallery). Nello spazio che crea l’assenza della routine lavorativa, il nostro cervello trova nuovi punti di vista per interpretare ciò che normalmente non riusciamo a decifrare.
Alcune aziende, soprattutto nel settore tecnologico e informatico, lo hanno probabilmente intuito. Negli anni scorsi sono così aumentate le realtà – prevalentemente statunitensi – che hanno introdotto una «open vacation policy». In parole povere, i dipendenti possono prendere ferie pagate quando vogliono. E per quanto vogliono. Certo, occorre conciliare questo beneficio con gli impegni, le scadenze e le consegne della propria mansione. Ma quando la benedetta lista delle cose da fare si sfoltisce, si può restare a casa o partire per un viaggio, magari, dopo aver informato i propri responsabili.
Tre considerazioni su questa innovazione che per certi aspetti sembra quasi fantascientifica e per ora interessa una percentuale molto marginale di realtà. La prima è relativa al fatto che, complice la rivoluzione digitale, i confini temporali del nostro lavoro sono sfumati: lavoriamo e rispondiamo a e-mail e messaggi di WhatsApp anche quando non siamo pagati per farlo; perché quindi dovrebbe essere così assurdo togliere anche il limite temporale alle ferie e alle pause?
Secondo: alcune ricerche hanno rilevato che chi può godere di questo benefit, in genere prende meno ferie nel corso dell’anno rispetto agli altri lavoratori. Verrebbe da pensare che questa strategia disinneschi quasi il desiderio di prendersi una pausa, dati alla mano.
Infine, c’è da capire davvero come le aziende mettono di atto questa politica, nella quale c’è chi ha visto una semplice mossa di “marketing” per attirare le risorse più allettanti sul mercato del lavoro.
MA IN ITALIA POTREBBE FUNZIONARE?
0303Non è una domanda superflua anche solo considerando che i singoli mercati del lavoro hanno delle specificità che derivano dalla cultura del paese. Nel nostro, ad esempio, abbiamo ancora qualche problema a scalfire anche solo il cosiddetto presenzialismo: la maggior parte degli imprenditori ritiene che un dipendente sia produttivo se sta fisicamente in ufficio otto ore al giorno. Poi, per carità, alcune aziende virtuose ci sono anche sotto questo profilo. Fra le 50 realtà premiate nella classifica generale stilata da Great Place to Work, ad esempio, sette prevedono periodi sabbatici retribuiti.
Però al di là di questi casi sporadici c’è ancora molto da lavorare sulla cultura aziendale che nella maggior parte dei casi non guarda ancora al benessere del lavoratore come a una priorità. «L’open vacation policy per essere efficace richiede una trasformazione culturale del lavoro nel senso della delega e dell’autonomia ed è praticabile in contesti che rispettano il tempo delle persone. Non potrai mai vivere, ad esempio, una vera vacanza connesso a riunioni aziendali dalla spiaggia o impegnato nella caccia a una buona connessione wi-fi a 2.000 metri di quota in giornate nelle quali il resto del team sta lavorando. Sotto questo profilo molti manager statunitensi in Italia mi hanno rivelato di aver vissuto a Ferragosto la prima vera vacanza della loro vita affermando che è meraviglioso sapere che tutti sono in vacanza e che hai quindi il diritto di disconnetterti sul serio» ci spiega Andrea Notarnicola, che da anni studia e lavora con aziende in situazioni di crisi.
«L’idea è molto interessante ma dal mio punto di vista un po’ prematura per l’Italia» osserva Roberto D’Incau, ceo di Lang&Partners, società di consulenza in risorse umane. «Siamo ancora alle prese con la necessità di far passare l’idea che il lavoro agile e quello da remoto sia un tratto che può diventare strutturale, al di là dell’emergenza pandemica. C’è poi il rischio pratico che, nonostante la possibilità di prendere ferie quando lo si desidera, i dipendenti non riescano davvero a farlo».
Concorda Chiara Ghislieri, docente di Psicologia del Lavoro all’Università di Torino: «in base a studi ed esperienze di confronto con le organizzazioni mi sembra difficile si possa affermare questo approccio in Italia. Nel nostro Paese prevale una valutazione del lavoro basata sulla presenza: senza pandemia il lavoro agile era di nicchia e ora, in parte anche per ragioni valide, in parte meno, si tende a spingere per un ritorno in presenza massivo. Inoltre, i profili di leadership, seppure con notevoli differenze organizzative legate anche a fattori come l’età e la dimensione dell’azienda, vedono un prevalere di dinamiche di controllo, sia nel quotidiano che sul medio-lungo periodo. Infine, solo per citare gli aspetti principali, c’è un tema di sbilanciamento tra carico di lavoro e risorse che in parte si collega a una mancanza di chiarezza di priorità e ruoli, e che rende difficile anche lavorare in una cornice di autonomia tale da preservare il lavoro in una dinamica di elevata flessibilità. Ovviamente ci sono le eccezioni, ma forse anche altre priorità: sarebbe già un grande passo iniziare a lavorare seriamente sul diritto alla disconnessione».